Così, chiacchierando con Gigliola Frazzoni (Bologna 22 febbraio 1927 – 3 dicembre 2016) nacque l’idea di scrivere la sua biografia. Già dalla prima visita alla sua casa rimasi colpito dalla preziosa raccolta di ricordi, cimeli, foto, locandine, costumi, giornali: i testimoni della grande carriera di una grande artista che non ha mai concesso nulla al divismo. Scrivere della Frazzoni non è stato facile, ma divertente perché tra lei e il marito è tutta una battuta, le risate si sprecavano.
Sono ospiti eccezionali e Giorgio ai fornelli è un mago. Tra loro battibeccano simpaticamente correggendosi su episodi e date della carriera artistica di Gigliola, concludendo poi con pittoresche frasi in dialetto bolognese. È capitato spesso, dietro mia richiesta, di ascoltare delle registrazioni della Signora e qui… si piange. E’ una commozione molto forte dalla quale non voglio farmi prendere, ma di brividi ne ho sentiti tanti. Questa biografia nasce con l’intento di rendere giustizia ed onore all’arte di Gigliola Frazzoni.
Introduzione
«Mi piacerebbe scrivere un libro su di me. Anzi ho già scritto tante cose, ma mi riesce difficile legarle tra loro, poi sono disordinata. Perché non lo scrivi tu un libro su di me? Ti passo tutti i fogli che ho scritto, i ritagli dei giornali, le fotografie e tutto quello che può servire».
«Mah, non so se riesco a scrivere una biografia!»
«No, non voglio una biografia: sa di necrologio. Io voglio proprio un libro, una storia magari a episodi. Vedi un po’ cosa puoi fare; intanto prendi quello che ho scritto e queste critiche che ho ritagliato dai giornali di allora».
Ritorno a casa sotto il peso della “storia” che scarico sul tavolo e comincio a guardare, con molta curiosità, a quello spaccato di storia del melodramma. Mi convinco sempre di più che Gigliola Frazzoni è stata soffocata, come altre sue colleghe, dal binomio Callas-Tebaldi. Continuo a razzolare freneticamente fra le carte, poi ad un tratto mi accorgo che non ci sono le date, tranne alcune scritte a penna. L’indomani chiamo la Frazzoni.
«Ciao sono Mario».
«Mario, Mario, Mario!»
«Son qui, ma piuttosto sconcertato per non dire altro».
«Cos’è successo?!»
«Ma Gigliola, non c’è una data, un riferimento preciso. Nei tuoi fogli sparsi prima racconti un episodio con una data, poi lo ripeti più avanti cambiando la data e dicendo cose differenti. I ritagli dei giornali sono talmente “ritagliati” che mancano tutte le date e i nomi delle testate. Io non capisco più niente e non riesco ad andare avanti».
«Non è un problema. Tu scrivi quello che riesci a prendere dai miei fogli e dai giornali: altre cose te le dirò io. Poi le date non sono molto importanti.
«Come sarebbe, sono importantissime! Se qualcuno leggerà queste pagine, senza riferimenti cronologici capirà poco».
«Ah, se lo dici tu… adesso vado in cantina e tiro fuori tutti i contratti con le date».
IL PRIMO INCONTRO
Il nostro incontro avvenne perché Il Resto del Carlino pubblicò un’intervista che le avevo fatto e che aveva avuto su di lei un effetto rivitalizzante: si trovò improvvisamente al centro dell’attenzione di un pubblico che, colpevolmente, l’aveva relegata nel “dimenticatoio”.
Per essere un’artista la Frazzoni è un personaggio strano. Mi sembra che non abbia mai voluto o potuto mettersi in mostra, come hanno fatto quasi tutti i suoi colleghi. E’ una cosa insolita per un soprano che ha avuto una carriera molto importante. Evidentemente mancando la cosiddetta “promozione” si deduce che i successi siano stati frutto esclusivo delle sue qualità artistiche. Tutto ciò è sorprendente, perché il temperamento, direi sanguigno, e la grinta sempre presente nelle sue interpretazioni, contrastano con questo modo di essere. La personalità di Gigliola Frazzoni non è facile da definire. E’ una donna dalla spiccata sensibilità, semplice e determinata, forte e fragile nello stesso tempo, con idee molto chiare. Una donna, un’artista che non ha mai accettato compromessi.
Chi conosce il mondo dello spettacolo, e chi non lo conosce lo può arguire, sa bene che si tratta di un ambiente molto pericoloso dove agiscono persone senza scrupoli. Rarissimi i mecenati, quelli che credono nelle possibilità artistiche di un giovane, quelli che offrono il proprio aiuto per il piacere di farlo, quasi fosse una scommessa con se stessi. La Frazzoni è una persona seria nel senso più stretto del termine, che ha sempre svolto il suo “lavoro” in modo preciso e meticoloso. Con l’umiltà di un qualsiasi lavoratore ha messo al servizio del pubblico il suo talento, la sua arte senza clamori, con grande senso di responsabilità, consapevole che quello era il suo contributo alla società. Entrava in teatro alle 18,30 quando lo spettacolo iniziava alle 21,15. Andava con molto anticipo per girare sul palcoscenico, controllare che tutto fosse a posto, cominciare ad entrare nel personaggio per esserne maggiormente coinvolta.
La sua casa è a Zola Predosa nell’interland bolognese. E’ una casa molto accogliente, è la casa di una cantante, come lei stessa dice. Fotografie, locandine di teatri prestigiosi, cimeli di ogni tipo, compagnie da capogiro, direttori che hanno fatto la storia del melodramma. Non è facile “raccontare” Gigliola Frazzoni, perché i suoi racconti sono una valanga di nomi, di eventi e di date che lasciano senza fiato. Se per caso sbaglia qualche riferimento è prontamente corretta dal simpaticissimo marito, Giorgio Vanti: la memoria storica. La Signora, come la chiama il marito, conserva un grande fascino. Il suo sguardo ha qualcosa di magnetico che si trasmette attraverso occhi bellissimi, di un colore indefinibile: azzurro, blu, verde, grigio. Bella, simpatica, spontanea, incline alla battuta in dialetto, tipica dei bolognesi. Racconta e parlando di certe situazioni si commuove. «La mia famiglia era povera, ma molto onesta e lavoratrice: la mamma, Maria, faceva la sarta, il papà, Dante, era falegname». La famiglia Frazzoni da Altedo, piccolo centro della bassa bolognese ai confini con la provincia di Ferrara, venne ad abitare a Bologna. In casa Frazzoni c’era molta allegria e la musica non era una novità. Il padre di Gigliola suonava bene la chitarra e ogni settimana convocava due amici: un fisarmonicista e un mandolinista. I concertini nel cortile erano diventati un appuntamento anche per i vicini che ascoltavano dalle finestre e applaudivano. «Io avevo il teatro nel sangue, perché cantavo in continuazione meravigliando i presenti per il volume della mia voce. Quelli furono i miei primi applausi ».
Poi le scuole, sempre con pochissimi soldi in tasca, sufficienti per la merenda. «Ero brava in disegno e la scuola ne mandò uno a Roma che fu premiato dal Duce. In estate mi mandavano al mare, in colonia. Noi bambine eravamo vestite da piccole italiane: gonna nera a pieghe e maglietta bianca. Devo dire che mi vergognavo un poco a portare quella maglietta, perché era aderente ed io, già forte di seno, fui soprannominata “la tettona”. In colonia cantavamo spesso e la maestra voleva che io fossi la prima ad intonare, poi gli altri mi seguivano».
Siamo in pieno regime fascista e S.E. il Cav. Benito Mussolini stava spesso in mezzo ai giovani visitando scuole, impianti sportivi, colonie marine. In quegli anni, dopo diverse stagioni passate a Cattolica, villeggiava a Riccione e un giorno decise di fare visita alla Colonia Bolognese. Riporto testualmente le parole della Frazzoni che, mentre racconta, si illumina di un sorriso dolcissimo un po’ velato da malinconia, così come quando si ricordano le cose belle di un tempo: in lei una memoria indelebile e in me l’immagine dei quadri felliniani che non si possono dimenticare.
«Una volta venne il Duce in visita! Arrivò dal mare in moscone con la figlia Edda seguito da un lunghissimo codazzo di altri mosconi. Fu uno spettacolo bellissimo. Sul mare vedevamo una lunga striscia bianca che costeggiava, seguiva la spiaggia. Lui, ai remi, portava una sahariana bianca, pantaloncini corti bianchi, calzini bianchi, scarpe bianche. Edda aveva un vestito lungo bianco con le bretelle e in testa un cappellino piccolo. Noi aspettavamo tutti in riga. Io mi trovavo davanti, in prima fila, perché dovevo intonare la canzone di benvenuto. Mussolini applaudì e prese in braccio una bimba magrolina che era al mio fianco. A me fece una carezza, ma non mi prese in braccio perché ero cicciotta».
Venne la guerra e anche se i bombardamenti erano ancora lontani, cominciò ad infiltrarsi nella mente di tutti la paura. Era l’effetto studiato e ottenuto dagli Inglesi che terrorizzavano la popolazione con un caccia, chiamato “Pippo” tanta era la funerea consuetudine con questo aereo che appariva all’improvviso, mitragliava, uccideva e, altrettanto improvvisamente, spariva. La famiglia ritorna, sfollata, ad Altedo: il posto era più sicuro. «Furono anni molto duri. Ricordo con i brividi la dichiarazione di guerra dalla voce del Duce che arrivava dalla radio dei vicini, da quella stessa radio che trasmetteva musica lirica. Cantava un tenore che dicevano essere molto bravo: si chiamava Gigli. Ascoltandolo imparai un’aria che cantavo spesso “Rondini al nido”. Di fronte a casa abitava una cantante lirica, Valeria Manna, che dava lezioni di canto ed io imitavo i vocalizzi dei suoi allievi. Un giorno si affaccia alla finestra, mi dice di smettere e m’invita a casa sua. Mi nascosi: non sapevo cosa volesse dire studiare canto. In casa mia nessuno andava all’opera, non avevo mai sentito dischi. Eravamo noi i “canterini di casa” e non pensavamo al teatro, il teatro lo facevamo noi».
Una voce così importante non poteva passare inosservata; si doveva soltanto aspettare l’occasione propizia. Un giorno si presenta l’esattore del gas e la sente cantare. Resta impressionato da quella voce naturalmente impostata e, siccome se ne intende, perché canta nel coro “Euridice”, insiste con la famiglia per farla studiare. Sono cose che accadono soltanto in Emilia, il paese del melodramma, dove c’è un popolo, per dirla con Bruno Barilli “facile ad accalorarsi, travagliato e pieno di una sinistra inclinazione musicale”. Il gasista aveva sentenziato che la Gigliola aveva «una vòus, una voce con delle qualità». La madre rimase indifferente, la figlia no e riesce a presentarsi al concorso del dopolavoro per “Voci grezze e Voci pronte” indetto dal Liceo musicale. Il direttore m° Nordio e la giuria rimasero senza parole davanti a quella giovanissima sfrontata, con la frangetta e gli scarponi verdi che, per nulla intimorita, attraversava la sala piena di concorrenti “veri”, maestri di canto, giornalisti e pubblico, per cantare. A casa non sapevano nulla dell’idea balzana venuta alla ragazzina che si presentò da sola e cantò una canzone, Rondini al nido, senza l’accompagnamento del pianoforte, perché la confondeva. I giudici sentenziarono che più “grezza” di lei non c’era nessuno e la proclamarono vincitrice del concorso. La voce era bella, ricca, estesa: una voce da non perdere. (fine della prima parte)