Bologna, Teatro Comunale, Stagione Lirica 2012/2013
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti su libretto di Salvatore Cammarano, dalla tragedia El trovador di Antonio Garcia-Gutierrez
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna ROBERTO FRONTALI
Leonora MARIA JOSE’ SIRI
Azucena ANDREA ULBRICH
Manrico ROBERTO ARONICA
Ferrando LUCA TITTOTO
Ines ELENA BORIN
Ruiz CRISTIANO CREMONINI
Un vecchio zingaro MICHELE CASTAGNARO
Un messo ENRICO PICCINNI LEOPARDI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Paul Curran
ripresa da Oscar Cecchi
Scene e costumi Kevin Knight
Luci Bruno Poet riprese da Andrea Oliva
Allestimento del Teatro Comunale di Bologna, in coproduzione con Teatro delle Muse di Ancona e Circulo Portuense de Opera di Porto
Bologna, 23 dicembre 2012
Andare all’opera ha rivestito significati diversi nel corso della storia d’Italia, ma dai tempi di Burney o Stendhal una funzione è rimasta immutata: abbattere ogni speranza che questo possa mai diventare un paese civile. Il pomeriggio del 23 dicembre al Comunale di Bologna dopo la celebre cabaletta del tenore “Di quella pira” una possente voce di baritono da coro lirico amatoriale ha preceduto gli applausi (con quel tempismo che il melomane apprende solo con anni di esperienza) tuonando dal loggione “Bravo maestro!”. Con effetto antifonale veramente verdiano, una più flebile voce da un palco vicino al proscenio replicava seccamente con un misterioso “Stronzi!”. O così almeno mi è parso perché nel frattempo dalla platea si levava la voce pretesca di un musicologo che deprecava con il vicino (ma in realtà, generosamente, a beneficio ed erudizione di tutto il teatro) il taglio della cabaletta, eseguita come da “tradizione” una volta sola: “Non è rimasto praticamente nulla…”.
In tutto ciò, chi scrive si rintanava nella sua poltrona fingendo di essere un lappone o un maori capitato lì per caso, come mi avviene quando la comitiva di connazionali esplode in un fragoroso applauso all’atterraggio di un volo o non si accorge che il proprio tono di voce teatrale sta gettando nella più profonda costernazione tutto il vagone del treno tedesco. È sempre difficile interpretare gli umori degli italiani – che mai sono così italiani come quando si tratta di opera, e a maggior ragione di Verdi, e massime del Trovatore – ma non credo di sbagliare molto parafrasando la prima esternazione così: “Bravo direttore d’orchestra, che hai permesso (o magari – ancora meglio – imposto) al tenore di fare il famoso Do che siamo abituati a sentire (nei dischi). Noi siamo qui a vigilare che tutto si svolga come è sempre stato ed eravamo pronti a “buarti” caso mai avessi voluto seguire il cattivo esempio di certi molfettesi “filologici”. Notiamo con piacere che invece hai compreso la nostra importanza e non hai fatto colpi di testa.” Né a questi sacerdoti della tradizione, né agli altri sacerdoti della filologia e tanto meno al pubblico festeggiante sembra che sia importato granché che “il tenore” non fosse un concetto astratto bensì un essere umano, Roberto Aronica, al suo debutto nel ruolo, che dopo un primo primo Do alquanto faticoso (“o teeeeco almeno…”), aveva lanciato il famoso “All’armi!” come l’urlo disperato di un povero suino al macello, probabilmente sapendo di non poter esimersi dal farlo senza procurarsi l’odio eterno del loggione e probabilmente sperando di non finire nella rubrica del lunedì della Barcaccia (le “perle nere”). Il che forse spiega la seconda sibillina esclamazione dal pubblico (“stronzi!”). Si è detto a volte che agli italiani che vanno all’opera importa solo il canto, ma si vede bene che, tutto al contrario, qui sono in gioco valori culturali e identitari molto superiori e la valutazione estetica di un suono è proprio l’ultima della priorità del pubblico.
A parte questo delizioso (o deprimente, a seconda) spettacolo circense, questo Trovatore non è stato tanto male. La domenica mattina l’immaginazione di un amante del belcanto era ingombra di tristo presagio, non riuscendo proprio ad entusiasmarsi alla prospettiva di doversi recare a Bologna due giorni prima di Natale, sfidando il traffico, le multe (vero prodotto tipico cittadino) e sperando (invano) di riuscire a trovare un parcheggio regolamentare, per andare poi a sentire della gente impalata che strilla. Ma tutto sommato, nel complesso, il Comunale di Bologna se l’è cavata abbastanza bene.
Per essere impalati, i cantanti erano proprio impalati, in questa produzione creata nel 2005 da Paul Curran e ripresa ora da un assistente, un allestimento fatto per compiacere il loggione, forte delle belle scene di Kevin Knight e delle luci poetiche di (nomen omen) Bruno Poet e del tutto privo di una qualsivoglia idea, a meno che non si vogliano considerare “idee” i costumi risorgimentali anziché tardo-medievali o il fatto che nei primi due atti le truppe del Conte di Luna affrontano l’artiglieria degli zingari muniti soltanto di sciabole (con effetto alquanto ridicolo) e vengono riforniti di armi da fuoco solo al terzo atto.
La piatta didascalicità dello spettacolo non avrebbe in realtà dato fastidio, se si fosse prestata una qualche attenzione alla recitazione, almeno del personaggio di Azucena, che, come notato da Verdi fin dai primi stadi della composizione, abbisogna, per risultare (almeno vagamente) credibile, di una grande attrice. Cosa che non è certamente l’ungherese Andrea Ulbrich, voce mediosopranile non indegna, a parte gli acuti larghi e privi di squillo, ma interprete alquanto debole, prima di tutto per la grande riluttanza a pronunciare le consonanti.
A parte gli infelici acuti della “Pira”, il debutto di Roberto Aronica nella parte di Manrico non è stato deludente. Nel cantabile “Ah, sì, ben mio” ha dato dimostrazione di non essere in grado (o di non essere in grado in quel momento) di cantare con la gola aperta nel piano, alterando variamente le vocali schiacciandole nel naso o soffocandole nella gola, difetto oggi comune, peraltro, al 90% dei tenori, baritoni o bassi in questo repertorio, ma i piani di “Ai nostri monti” hanno avuto più successo. Dove Aronica si è fatto apprezzare molto è stato soprattutto nei numerosi momenti eroici della parte (“Mal reggendo all’aspro assalto”, i terzetti…), grazie ad una voce franca e sonora.
Il soprano uruguayano Maria José Siri è più una Micaela o Mimì che una Leonora. La voce, bella e morbida e dotata di un piacevole registro di petto, non esibisce una incrollabile sicurezza negli acuti (talora belli, talora meno) e non è di grande volume, non aiutata in questo da Renato Palumbo sul podio, elegantemente (ma talora rigidamente) asciutto nei tempi ma assai poco incline a temperare l’esuberanza dell’orchestra. Va però detto che nella scena del “Miserere” è risultata molto più presente che “Tacea la notte placida” e relativa cabaletta, grazie ad una posizione dell’interprete più avanzata in proscenio. Conviene ricordare che il proscenio è il luogo che dovrebbe essere sempre preferito per le arie solistiche, in mancanza di altre necessità espressive della regia (ma non era proprio questo il caso). Le vere star della serata sono state il Ferrando di Luca Tittoto, dalla voce bella e sonora, dalla dizione intelligibile e con la rara precisione del settecentista nelle quartine di “Abbietta zingara” così come nelle terzine di “Morì di paura”, e naturalmente l’eccezionale Conte di Luna di Roberto Frontali, che oggi ha ben pochi pari al mondo. Il timbro caldo, il legato, la ricchezza dinamica dal piano al fortissimo, la sicurezza negli acuti ci fanno ancora una volta pensare che la predilezione di queste svampite di primedonne ottocentesce per i tenori ed il disprezzo dei baritoni merita loro in pieno le fini orribili cui vanno incontro. Cristiano Cremonini è stato un Ruiz di lusso, piacevole e aggraziato. Ottima come sempre la prova del Coro del Comunale di Bologna preparato da Lorenzo Fratini.P.V.Montanari Foto Rocco Casaluci