“Manfred” di Robert Schumann al Teatro Massimo di Palermo

Palermo, Teatro Massimo, stagione sinfonica 2012
“MANFRED”
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Michele Mariotti  
Voce recitante Umberto Orsini
Musica di Robert Schumann
Poema drammatico in tre atti di George Gordon Byron
versione in lingua italiana
adattamento a cura di Daniele Salvo
Regia e impianto scenico Daniele Salvo
Elaborazione immagini video Giandomenico Musu (Indyca – Torino)
VOCI RECITANTI
Manfred UMBERTO ORSINI
Il Cacciatore di camosci / Arimane / Manuel GIANLUIGI FOGACCI
L’Abate di San Maurizio CARLO VALLI
Herman / Terzo Spirito / Angelo nero GIULIANO SCARPINATO
La Fata delle Alpi / Primo Spirito FRANCA PENONE
Nemesi / Quarto Spirito MARCELLA FAVILLA
Secondo Spirito / Prima Parca ROBERTA CARONIA
Astarte CINZIA MAZZI
CANTANTI
Primo Spirito CRISTINA MELIS
Secondo Spirito KATIA ILARDO
Terzo Spirito FRANCESCO PALMIERI
Quarto Spirito ALBERTO PROFETA
EMANUELE CORDARO (basso)
GIOVANNI BELLAVIA (basso)
GABRIELE SAGONA (basso)
Maestro del coro Andrea Faidutti
Palermo, 4 novembre 2012

“Ecco, si spegne il lume. Nuovamente m’è forza rianimarlo, anche se certo morrà di nuovo prima del mio tempo d’insonnia… Il sonno mio, pure io dormiente, non è sonno: è un continuo pensiero ostinato e gli occhi miei si chiudono solo a guardarmi dentro”. Con parole grevi, che racchiudono già il senso complessivo del lavoro, inizia Manfred, poema drammatico scritto a partire dal 1816 da George Byron e pubblicato nel 1817. Il protagonista rappresenta l’eroe romantico per eccellenza, novello Prometeo in perenne lotta contro sé stesso. Il senso di colpa che lo attanaglia, l’amore vissuto come tormento, l’anelito verso una dimensione metafisica, la natura percepita come oscura e insieme ricca di fascino: tutti elementi che ritroviamo in questo testo e che a ragione ne fanno un’opera fondamentale del Romanticismo europeo. L’amore incestuoso che Manfred nasconde lo porta a desiderare l’eterno oblio, a evocare spiriti della natura e potenze infernali per potere placare (anche solo in parte) il tremendo rimorso e la smania di conoscenza. Proprio in virtù delle suggestioni presenti – pur non presentando una struttura particolarmente adatta ad una rielaborazione musicale – l’opera di Byron ha ispirato diversi musicisti, tra i quali Čajkovskij che nel 1885 compose una sinfonia dallo stesso titolo. Ma ad aprire la strada era stato Robert Schumann che nel 1848, dopo l’esperienza dell’opera lirica Genoveva, scriveva ancora per il teatro componendo le musiche di scena per il dramma byroniano. Una successione di quindici pezzi preceduti da un Ouverture, appartenenti per lo più al genere del melologo (recitazione con accompagnamento musicale), genere abbastanza diffuso fra Sette e Ottocento.
La musica di Schumann serve così ad esaltare la forza interna della parola drammatica, amalgamandosi con essa e ponendosi al suo servizio. Nello spettacolo andato in scena il 4 novembre al Teatro Massimo sembrava invece che vi fosse una separazione tra i diversi piani. Quello musicale ha convinto e avvinto non soltanto per la qualità dei brani, ma anche e soprattutto per l’interpretazione del direttore, Michele Mariotti, e per il contributo dell’Orchestra del Teatro Massimo. Nell’Ouverture sono emerse sfumature dinamiche continue e ben curate dalla bacchetta di Mariotti, che ne ha messo in risalto il frenetico avvicendarsi, anche a distanza di pochissime battute. Il robusto dialogo fra sezioni orchestrali era sostenuto dai movimenti discreti del giovane direttore che ha saputo compenetrarsi con intelligenza nella componente esoterica dell’opera. I quattro elementi – Aria, Acqua, Terra, Fuoco – erano impersonati dalla voci modulate e intense di Cristina Melis (mezzosoprano), Katia Ilardo (soprano), Francesco Palmieri (basso) e Alberto Profeta (tenore). A questo quartetto più tradizionale ha fatto seguito l’intervento dei bassi Emanuele Cordaro, Giovanni Bellavia, Gabriele Sagona (insieme a Palmieri), posti vicino e non distanziati come i precedenti, a testimoniare un legame musicale e metaforico che i cantanti hanno sviluppato con intima coerenza e solida tessitura. I brani corali evidenziavano uno stile contrastante, ma di impatto sicuro e possente nel volume, attraverso una scrittura abbastanza consueta che ha toccato l’apice nello splendido Requiem conclusivo. All’isolamento di alcuni personaggi faceva inoltre riscontro l’emergere di timbri puri nell’orchestra, come il violino durante l’apparizione del settimo spirito in forma di donna, o il corno inglese nel dialogo con il Cacciatore di camosci, interpretato dall’attore Gianluigi Fogacci.
Sul piano teatrale e visivo, la regia di Daniele Salvo ha poco aggiunto alla resa espressiva del dramma, limitandosi a far muovere gli spiriti su palchi scorrevoli o a sospenderli per aria in determinati momenti, finendo dunque per rafforzare l’aspetto statico dell’azione, piuttosto che conferirle una dimensione dinamica e di raccordo fra diversi livelli. Invece, durante i melologhi, si è percepita una distanza incolmabile fra voce e orchestra, rafforzata anche dalla decisione di fissare il protagonista al proprio posto e di far ruotare intorno a lui alcuni personaggi. Al contrario Manfred vive questa dialettica fra chiusura in sé e ricerca di altro, una dialettica che forse andava sottolineata sul piano scenico. Nell’adempiere al proprio compito, Umberto Orsini ha profilato un personaggio interiormente sofferto, dalla voce roca e appesantita, incatenato senza via d’uscita al proprio tormento. L’effetto di angosciosa solitudine era perfettamente realizzato nei monologhi, ma durante i dialoghi ci saremmo aspettati una maggiore intesa con gli altri protagonisti, costruita con sguardi e gesti più incisivi. A lui si rivolgevano con sicurezza interpretativa sia il Cacciatore di camosci che l’Abate di San Maurizio (Carlo Valli), dando prova di un contraltare convincente e ben condotto. Riguardo invece alle entità soprannaturali, il risultato si è rivelato fortemente disomogeneo, con alcune scene più efficaci – come quella della Fata delle Alpi, impersonata da Franca Penone – e altre che rasentavano l’imbarazzo, fra tutte l’apparizione di Astarte, degna delle più grottesche notti halloweeniane. Ed è proprio durante tale incontro che il contributo delle immagini-video di Giandomenico Musu proiettate sullo sfondo si è mostrato un po’ inopportuno rispetto all’equilibrio dei momenti precedenti, sviluppato attraverso cieli stellati, fiamme inquietanti, cascate mozzafiato, scenari montani, di cui si sono apprezzate le diverse “voci”. Pubblico spaccato fra i pochi che hanno abbandonato la sala alle ultime note e i molti che sono rimasti sino alla fine, tributando allo spettacolo un caloroso successo. Foto Franco Lannino ©  Studio Camera