«Et surtout la chose enivrante: La liberté!» Carmen al Regio di Torino

Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2012-2013
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti, libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dalla omonima novella di Prosper Mérimée.
Musica di Georges Bizet
Carmen ANITA RACHVELISHVILI
Don José MAKSIM AKSËNOV
Micaëla ALESSANDRA MARIANELLI
Escamillo MARK S. DOSS
Frasquita ARIANNA VENDITTELLI
Mercédès ANNALISA STROPPA
Il Dancaïre PAOLO MARIA ORECCHIA
Il Remendado ANTONIO FELTRACCO
Moralès FEDERICO LONGHI
Zuniga FRANCESCO MUSINU
Lillas Pastia BOB MARCHESE
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Cori di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”
Direttore d’orchestra Yutaka Sado
Maestro dei Cori Claudio Fenoglio
Regia Calixto Bieito
ripresa da Joan Anton Rechi
Scene Alfons Flores
Costumi Mercè Paloma
Luci Alberto R. Vega
Direttore dell’allestimento Saverio Santoliquido 
Allestimento del Teatro Regio in coproduzione con Gran Teatre del Liceu di Barcellona, Teatro Massimo di Palermo, Teatro La Fenice di Venezia
21 novembre 2012

«Questa musica è malvagia, raffinata, fatalistica: malgrado ciò essa resta popolare […]. È ricca. È precisa. Costruisce, organizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla “melodia infinita”. Si sono mai uditi sulle scene accenti tragici più dolorosi? E in che modo essi vengono raggiunti! Senza smorfie! Senza battere moneta falsa! Senza la menzogna del grande stile!»
Quando si riascolta Carmen a Torino è inevitabile almeno un rimando alla celebre Lettera da Torino del maggio 1888, in cui Friedrich Nietzsche contrappone la musica di Bizet, così vitale e sanguigna, ai languori wagneriani, e soprattutto al ripiegamento cristiano del Parsifal. Il filosofo aveva in quell’anno assistito per la ventesima volta nella sua vita all’opéra-comique, non già al Regio, ma al Teatro Carignano; comunque era Torino a decidere del suo ultimo fervore musicale. E le riflessioni di Nietzsche tornano quanto mai utili, in particolare allo spettatore di un allestimento come quello di Calixto Bieito, su cui molto si è scritto e polemizzato (ma soprattutto chiacchierato con leggerezza); occorre infatti, al di là di presunti scandali e provocazioni annunciate, capire la plausibilità, la funzionalità di un impianto di regia, e più di tutto la sua relazione con la musica. A questo proposito, appunto, dalla musica bisogna partire, perché la Carmen del Regio è stata diretta in maniera impeccabile da Yutaka Sado: questo è parso l’elemento di maggior risalto, determinante alla comprensione del dramma. Sicuramente si percepisce uno scollamento (non però negativo) tra direzione orchestrale e palcoscenico. Sado ha presentato una lettura accuratissima, rivelando tutte le finezze della musica di Bizet, specie le prodezze assegnate a ottoni e fiati. La linea-guida della direzione è stata la raffinatezza, tesa a esaltare i colori in continuo avvicendamento; del resto Sado è un frequentatore del repertorio sinfonico, e l’abitudine a dirigere Mahler e autori del Novecento si rispecchia anche su Bizet con un effetto di grande arricchimento rispetto a pagine ascoltate così tante volte. I tempi sono sempre ben calibrati, le sonorità e i volumi mai eccessivi; Sado non si allinea a nessuna versione tradizionale della Carmen, proprio perché è alla continua ricerca dell’autentico spirito musicale di ogni scena, al di là di schematismi e impostazioni predefinite. E l’orchestra del Regio risponde perfettamente alle frequenti sollecitazioni del maestro, porgendo un suono preciso, vibrante di intensità – a tratti davvero commovente – in ogni famiglia strumentale.
Al contrario, sul palcoscenico è esaltata ogni componente prosaica, immediata, concreta, che le varie situazioni sceniche offrano; l’impianto di regia non dà tregua ai cantanti (e neppure ai cori) perché ogni battuta del libretto, nel canto come nella recitazione, è accompagnata da precise scelte attoriali, movimenti, gestualità. Inutile parlare di scene o scenografia, perché il grande palcoscenico del Regio è quasi sempre vuoto: nel I atto un palo per l’alzabandiera dei soldati è piantato nel centro; nel II e nel III macchine sgangherate di una Spagna franchista degli Anni Settanta ospitano Carmen con amici e contrabbandieri; nel IV è disegnato un cerchio di polvere bianca, entro cui si consuma l’assassinio della protagonista. Tutto è concentrato sulla fisicità, sulla corporeità dei cantanti e degli attori, sulla traduzione gestuale della parola teatrale.
Sia la direzione orchestrale sia la regia costituiscono quindi due modelli di grande coerenza, e l’effetto straniante che producono nel complesso forse è una delle cifre (se non la cifra) che rende Carmen così misteriosa, affascinante, inclassificabile nelle solite tipologie di melodramma. Il problema irresolubile del genere e della qualità artistici cui l’opera appartiene non può che essere presentato con un effetto di contrasto: massime raffinatezza ed eleganza nella musica e nel canto, contro l’immediatezza sfacciata e maliziosa, sempre sensuale, della situazione drammaturgica.
Tale opposizione ha raggiunto il culmine, senza esplodere in conflitto, con l’inizio del III atto, dopo l’unico intervallo della serata: il meraviglioso entr’acte, capolavoro di orchestrazione di Bizet, affidato in particolare al flauto e alle arpe, ha il compito di introdurre uno scenario nuovo e suggestivo, i Pirenei selvaggi e sereni (Un site sauvage dans la montagne, recita la didascalia). Bieito ha invece trasformato l’intermezzo in una garbata esibizione plastica di un figurante torero, che si spoglia rapidamente dei suoi abiti e, completamente nudo in una luce bluastra, mima una scena di corrida; in alto, nella semi-oscurità, la silhouette nera di un enorme toro, che domina tutto il III atto. La nudità di per sé non ha nulla di volgare; è il suo uso che può risultare di cattivo gusto, o decisamente scurrile; in questa scena lo scollamento tra musica (pensata per fare immaginare, più che per rappresentare qualcosa: il sipario avrebbe dovuto restare chiuso) e recitazione era davvero molto ampio; eppure non è parso che la trivialità gratuita avesse il sopravvento; anzi, la presenza di un nudo maschile sembrava il corrispettivo della continua fisicità femminile esibita, ostentata nei precedenti due atti. Forse le intenzioni musicali sono state in parte tradite; quanto meno, però, l’esecuzione musicale non è stata disturbata: nel disordine degli allestimenti contemporanei, è già risultato positivo.
Protagonista indiscussa della rappresentazione è stata Anita Rachvelishvili, ben nota al pubblico italiano per aver interpretato Carmen in apertura e chiusura della stagione 2009-2010 del Teatro alla Scala (con regia di Emma Dante); rispetto a quell’edizione la voce della cantante è oggi migliorata in sicurezza di emissione, omogeneità, acuti squillanti e ben sostenuti. Le note basse non sono affrontate con quelle fastidiose e goffe emissioni di petto cui indulgono molte cantanti (oggi come ieri), tranne che in qualche momento nel III e IV atto, poiché l’artista è troppo impegnata a soddisfare le richieste registiche. Bravissima sulla scena, la Rachvelishvili disegna un personaggio credibile dall’inizio alla fine (anche se un poco prevedibile); sul piano vocale, specialmente in occasione dei brani più attesi del I atto (Habanera e Séguedille), l’artista preferisce cantare sempre a voce piena, anziché rendere le numerose suggestioni del libretto con diverse gradazioni di volume (a volte fraseggia con dei pianissimi suggestivi; perché non ricorrervi più frequentemente?); le allusioni alla magia e a un mondo di credenze irrazionali sono trascurate, a favore di quella componente corporea che trionfa nell’impostazione registica. Per fortuna Bieito e Rachvelishvili individuano una misura otre la quale non spingersi: ecco perché la loro Carmen è potente, sfacciata, anche sconvolgente (come peraltro deve essere), ma non volgare.
Maksim Aksënov (don José) è un tenore dalla voce vigorosa, ma poco educata: nel I atto, a freddo, ha squadrato il personaggio in modo piuttosto rude; poi, dopo il duetto con Micaëla, è andato migliorando, fino a cantare l’aria del fiore in modo apprezzabile. I duetti con Carmen sono risultati efficaci, nonostante qualche momento in cui la voce del tenore tende al grido; di tutti i duetti il migliore è certamente stato quello finale, in cui Aksënov si è mantenuto corretto e misurato, sia nell’impostazione vocale sia nella recitazione. Alessandra Marianelli è stata una Micaëla dal canto molto delicato, dalla vocalità diafana, opportuna alla resa del personaggio, soprattutto nel contrasto con Carmen, anche se un poco leggera rispetto alla parte. Mark S. Doss interpretava il ruolo di Escamillo: una voce, la sua, che il pubblico del Regio conosce molto bene, sia per la frequentazione di lunga data con il teatro torinese sia per la varietà, anche un po’ azzardata, dei personaggi: nel giugno 2000 era Mustafà nell’Italiana in Algeri, nel marzo 2010 Capitano Balstrode nel Peter Grimes, e il mese scorso era il protagonista del Fliegende Holländer inaugurale della stagione 2012-2013. Qualche portamento di troppo e acuti privi di smalto hanno rivelato come la parte di Escamillo sia troppo acuta per adattarsi alla voce di questo abile cantante; la sicurezza sulla scena e l’intelligenza interpretativa gli hanno comunque permesso di risultare abbastanza convincente nella famosa canzone del torero. Simpatiche e scenicamente perfette Arianna Vendittelli (Frasquita) e Annalisa Stroppa (Mercédès, un po’ querula negli acuti). Autorevole, sicuro, dalla voce a tratti debordante il Moralès di Federico Longhi, mentre Francesco Musinu (Zuniga) ha fornito una prestazione non del tutto soddisfacente. Straordinari i cori, del Regio e del Conservatorio, nel canto e negli incessanti movimenti sulla scena. Il pubblico, al termine degli atti e alla fine della rappresentazione, ha tributato applausi molto convinti a tutti i cantanti (in particolare ad Anita Rachvelishvili), alle masse corali, ai figuranti e ancor più al direttore d’orchestra. Ed è giusto che sia stato così: il Teatro Regio ha offerto un grande spettacolo, curato nei minimi dettagli, ed è stato all’altezza di un melodramma tanto conosciuto quanto equivocato; a Torino invece era ben chiaro il senso ultimo dell’opera, sulla libertà assoluta quale preludio di violenza e di morte. D’altra parte «anche quest’opera redime», come scriveva lo stesso Nietzsche.