Tutte le sinfonie di Brahms a Torino con i Wiener Philarmoniker

Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli”, I Concerti del Lingotto 2012/2013
Daniele Gatti e i Wiener Philharmoniker interpretano Brahms
Orchestra Wiener Philharmoniker
Direttore, Daniele Gatti
Johannes Brahms: Sinfonia n. 1 in do minore op. 68; Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 73; Sinfonia n. 3 in fa maggiore op. 90; Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98
Torino, 1 e 2 ottobre 2012

1876-1885: è l’arco cronologico in cui si colloca l’elaborazione sinfonica brahmsiana; appena un decennio, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, da quando il compositore ha 43 anni a quando ne ha 52. Eppure, sembra di percorrere un’intera esistenza, di scalare una montagna anche molto ripida prima di giungere in vetta, specie se si ascoltano le quattro sinfonie una dopo l’altra, com’è accaduto a Torino con i Wiener Philharmoniker diretti da Daniele Gatti. Per celebrare il 150° anniversario dell’inizio della collaborazione tra Brahms e l’orchestra del Musikverein, appunto nel 1862 (nonché il 200° anniversario di storia dello stesso Musikverein), i Wiener sono impegnati in una tournée autunnale iniziata a Vienna il 22 settembre, proseguita a Madrid, Barcelona, e poi approdata a Torino, per due giorni dedicati al genere sinfonico. La sera del 1. ottobre sono state eseguite la III e la I sinfonia, la sera dopo II e IV. Verona, Köln, Bratislava sono le tappe successive, ma Torino è stata – insieme a Madrid, e ovviamente Vienna – l’unica città a ospitare due concerti consecutivi della prestigiosa orchestra, con tutte e quattro le sinfonie.
Anche per un frequentatore assiduo e scaltrito delle sale da concerto, è raro vivere due serate così intense, in cui si possa ascoltare in successione quattro capolavori della musica strumentale, ma soprattutto in cui si possa scoprire una bellezza nuova all’interno di pagine tante altre volte ascoltate singolarmente. Non si è trattato solo del piacere di risentire Brahms, quanto piuttosto di confrontare momenti celebri, comprendere meglio segmenti solitamente più appartati, come se i sedici movimenti musicali (i quattro di ciascun’opera) si parlassero a distanza, si richiamassero, offrissero all’ascoltatore segnali per illuminare quelle che in precedenza, e in altro contesto, erano apparse zone d’ombra, o semplici suture di passaggio; insomma l’ascolto ordinato (quasi cronologico: III, I, II, IV) delle quattro sinfonie è servito anche a correggere piccoli pregiudizi o a porre in discussione giudizi consolidati a proposito di stili, strutture, colori, ritmi brahmsiani. Tutto questo è stato possibile grazie alla prodigiosa omogeneità del suono dei Wiener, unico nell’amalgama degli archi, nella lega sonora di archi e ottoni, riconoscibile e distinto anche rispetto a quello delle altre grandi orchestre europee; ma anche grazie a Gatti, che ha dimostrato una profondità di studio e di lettura delle partiture brahmsiane davvero straordinaria.
Qual è la percezione complessiva di questo Brahms dei Wiener e di Gatti? È difficile sintetizzare in poche righe l’abbondanza di emozioni suscitata dalla ricchezza interpretativa delle esecuzioni, ma certamente uno dei caratteri più evidenti è quello ritmico. I tempi staccati dal direttore sono rilassati, in controtendenza rispetto alle smanie di velocità cui i direttori di oggi per lo più indulgono; e non c’è mai, nel singolo movimento, un tempo unico, metronomico: ogni sezione è soggetta alle variazioni ritmiche più opportune, in particolare a un ritenendo che estenua il disegno musicale fino a dissolverlo nel silenzio. Ma non si tratta di compiacimenti del direttore; il rallentamento del tempo è anzi funzionale all’espressività: a metà del Poco allegretto della III sinfonia è solo il rallentando a rendere colma di meraviglia la pausa di silenzio, prima che il corno, con sonorità soffusa, enunci da solo il celebre tema principale (ricordate la colonna sonora del film Aimez-vous Brahms? tratto dal romanzo di Françoise Sagan?). Lo stesso miracolo si è ripetuto nel finale della I, allorché Gatti dilata i tempi in prossimità della pausa che precede l’enunciazione del famoso tema beethoveniano, quella sorta di personalissima riscrittura dell’Inno alla gioia, che in tal modo risulta pienamente e autenticamente brahmsiano: non citazione né rimando, ma cifra personale. Anche nell’Allegretto grazioso quasi andantino della II (il terzo movimento, come già nella III) Gatti applica quella cura particolare nella distensione dei tempi che culmina in una pausa prima del ritorno al tema principale: l’effetto valorizza un’idea musicale fino a renderla organo centrale dell’intero movimento, come il cuore di un organismo vivente. E ancora: il conosciuto assolo del flauto nel finale della IV ha subìto un estenuato rallentamento, a beneficio della trattenuta solennità della ciaccona di origine bachiana che segue subito appresso. Con tanti accorgimenti di tale finezza, che denotano uno studio accuratissimo delle partiture, Gatti sembra insomma aver elaborato una modalità di lettura capace di svelare strutture e ritmi autentici, nascosti nei blocchi apparentemente monolitici delle sinfonie. Egli non è analitico nel senso di chi segue un particolare o una struttura all’interno della partitura, per farli risaltare su tutto il resto; al contrario, Gatti riesce a equilibrare le simmetrie e le rispondenze interne in modo che ogni segmento sia percepibile dall’inizio alla fine. Subentra poi l’analisi del particolare, la caratura sotto forma di accentuazione (o attenuazione) del volume sonoro, oppure di discrepanza ritmica: a volte un ritenendo è applicato al disegno degli archi, ma non a quello dei timpani o degli ottoni, con un effetto di vitalità complessa, capace di andare ben oltre le esigenze metronomiche.
Altro motivo di riflessione è fornito dallo studio dei rapporti di intensità tra le varie sezioni dell’orchestra: l’effetto complessivo che Gatti porge non è mai di un Brahms reboante, grandioso; anche quando domina il forte, è pur sempre conservato un timbro meditativo, e il pubblico percepisce comunque i limiti ben definiti, sobri, del volume sonoro. L’aggettivo che può meglio rappresentare questo Brahms, in coerenza con l’atteggiamento interpretativo, è forse “assorto”, e dunque in linea con le confessioni dello stesso compositore, che si diceva «un uomo profondamente malinconico» (in una lettera del 1879 al direttore d’orchestra Vincenz Lachner, citata da Giorgio Pestelli, che firma entrambi i programmi di sala). Anche il giudizio sulla diffusa serenità della II sinfonia può essere in parte modificato dalla resa di Gatti, che evidenzia sia i momenti di slancio (il finale più squillante e luminoso che mai) sia quelli di ripiegamento nel dolore più lancinante, in cui la musica pare davvero allusiva a dolorose ferite dell’anima umana. Con analoga intenzione, l’Allegro non troppo della IV e quell’impalpabile, difficile accordo d’apertura, sembrano sgorgare dal centro della terra, grazie a un suono immediatamente puro e omogeneo, ma dall’origine flebile e lontana, fortemente elegiaca. Gatti è dunque riuscito a trasporre in ogni partizione delle sinfonie di Brahms quella caratteristica fondamentale di ogni essere vivente che è il respiro, con le sue intermittenze, i suoi affanni, i suoi soffi di speranza e di gioia momentanea.
A suggello di entrambe le memorabili serate, un bis di forte suggestione coloristica e contenutistica; non poteva certo mancare almeno una Zugabe, per chiudere due programmi così fastosi. Forse il pubblico torinese non si aspettava che fosse lo stesso per due sere di seguito; ma la ripetizione ha giovato alla preziosità della scelta. Gatti, insieme ai Wiener, ha infatti selezionato il preludio al III atto dei Meistersinger von Nürnberg: dopo tanto Brahms, quel Wagner di circa dieci anni precedente la I sinfonia, così assertivo, così colmo di saggezza musicale teutonica, è risuonato nella sala con una purezza di archi e di ottoni che sembrava levigata da tutte le malinconie e gli struggimenti sinfonici ascoltati in precedenza. Ed è stato commovente l’effetto di quella grande musica tedesca, eseguita da un’orchestra austriaca, diretta a sua volta da un direttore italiano: per parlare schiettamente, non ci è mai parsa così bella.