Pasolini-Callas:L’amore impossibile (terza parte)

Navigando al largo di Grado, Pasolini e Zigaina si imbatterono nell’isolotto di Safon, niente più che un ciuffo d’erba con una capanna di canne e paglia. Pasolini affittò l’isolotto dal comune e vi trascorse qualche settimana per un’estate o due. Nel 1970 fece un disegno di due vecchie lampade a olio che si trovavano nella capanna, e un altro di canne e reti di pescatori. L’isolotto sarebbe divenuto l’abitazione del Centauro in una storia che celebrava una società non «storica» ma mitica, «arcaica» – un mondo in cui Pasolini poteva avere fiducia. Con Porcile appena terminato, era già al lavoro su Medea, il dodicesimo film in nove anni.
Teorema, Porcile e Medea vennero realizzati al calor bianco, in un periodo di dodici mesi. Gian Maria Guglielmino, critico della «Gazzetta del Popolo», commentò che la proficua produzione pasoliniana «non cessa mai di sorprendere», esprimendo inoltre sollievo al fatto che dopo i prodotti cerebrali di Teorema e Porcile c’era una trama, quella di Medea, che «grazie a Euripide» si poteva seguire […]
Già da tempo Pasolini stava pensando a un film sul mito greco di Medea
. Ma fu solo quando il produttore Franco Rossellini convinse l’amica Maria Callas a parteciparvi, che la sceneggiatura divenne realtà. Fin dall’inizio il progetto fu concepito appositamente per lei, in parte scritto su ordinazione, come Bellini e Donizetti avevano composto opere su misura per i soprani che le avrebbero cantate. Ma non somiglio affatto all’opera omonima di Luigi Cherubini (1797) che Callas aveva interpretato per la prima volta al Maggio musicale fiorentino nel 1933, e poi alla Scala nel 1962.
Durante il 1948-49, una florida Maria Callas (Callas Meneghini a partire dall’aprile del 1949) aveva percorso in lungo e in largo la penisola, cantando per farsi un nome. Al teatro Comunale di Firenze aveva interpretato il repertorio di Giuditta Pasta e Maria Malibran: Armida, Norma, Lucia di Lammermoor, Medea e La traviata. Nell’aprile 1950 era pronta (e impaziente) a sostituire una convalescente Renata Tebaldi nell’Aida in programma alla Scala; a soli ventotto anni, divenne la star della stagione 1951 del teatro milanese. Pesava più di novanta chili, ma era capace di comunicare le passioni di regine, cortigiane, sacerdotesse e zingare meglio di qualsiasi diva che avesse calcato le scene dell’opera a memoria d’uomo.
[…] Fu   Pasolini, e non Visconti (che l’aveva diretta in alcuni dei più grandi successi teatrali), né Zeffirelli (che le aveva chiesto di recitare in una versione cinematografica di Tosca), a farle interpretare l’unico film della sua carriera. Ci sarebbero voluti altri quindici anni prima che i loro destini si incontrassero; ma quando ciò avvenne, fu la produzione pasoliniana a consentirle di esprimere, senza canto, la tragedia della donna greca che uccide i due figli per vendicarsi dell’amante.
Non solo Pasolini non era il regista con le migliori probabilità di portare Callas sullo schermo, ma nemmeno il primo a essersi candidato all’onore di quella scommessa. Tra il 1960 e la morte, avvenuta nel settembre 1977 a 53 anni (la stessa età di Pasolini quando venne ucciso), Callas interpretò tre sole opere – Norma, Medea, e Tosca – ognuna delle quali avrebbe potuto funzionare in una versione cinematografica. Da anni, Onassis la esortava a cimentarsi di fronte alla cinepresa; nel 1961 un produttore ospite dello yacht dell’armatore greco tentò inutilmente di convincerla a recitare a fianco di Gregory Peck in Forza 10 da Navarone. Cinque anni dopo, declinò l’offerta di un ruolo nella gigantesca produzione italo-americana della Bibbia.
Era inamovibile, profondamente indecisa e insicura per timore di fallire. Altre proposte subirono la stessa sorte: quella dell’amante di trasformare il romanzo La primadonna dello scrittore tedesco Hans Habe in un veicolo per lei sola; quelle di Joseph Losey, un regista che stimava, per   l’adattamento di un racconto di Poe o di Boom di Tennessee Williams; quella di una Medea con l’eroe di Pasolini, Dreyer, che Callas aveva definito «un uomo eccezionale», ma che non era riuscito a trovare un produttore per finanziare il progetto.
[…]
Era dal 1967 che Franco Rossellini si presentava da lei ogni anno con un nuovo progetto: poteva forse interpretare Macbeth, con la regia di Antonioni o di Bolognini? Ma Callas voleva una tragedia vera e propria, non un’opera trasposta su film. Aveva disperatamente bisogno di un nuovo progetto, e Rossellini si ripresentò al momento giusto. La convinse che non doveva accettare il progetto di Visconti sulla vita di Puccini, né cantare nel Console di Giancarlo Menotti. Così, tra la sorpresa generale, la soprano accettò di interpretare una pressoché muta Medea in una coproduzione italo-franco-tedesca, scritta e diretta da Pasolini. In un’intervista ricordò il giorno esatto della proposta: 19 ottobre 1968. Facendo buon viso alla difficile decisione, disse: «Un anno dopo, Rossellini venne da me con un progetto concreto di Pasolini […] e ci incontrammo in una felice coincidenza di volontà».
Attese pazientemente che Pasolini terminasse Porcile e mettesse in scena Orgia a Torino. La sua posizione pubblica nei confronti della nuova collaborazione era in netto contrasto con le reazioni che aveva avuto per Teorema. A un amico, Rossellini confidò che Callas era uscita «a metà del film». Nella versione più dettagliata raccontata anni dopo dall’assistente (e confidente), Nadia Stancioff, Callas aveva telefonato all’amico Jacques Bourgeois «alle tre del mattino, e senza prologo né scuse si lanciò nella sua versione di Teorema»: Jacques… ho appena visto qualcosa di assolutamente disgustoso! L’ultimo film di Pasolini, Teorema. Quell’uomo è pazzo! … Un giovane va in campagna a passare un fine settimana con una famiglia. Fa all’amore con la madre, poi fa all’amore con la figlia, e poi fa all’amore con il figlio!
Quando l’amico aveva spiegato che si trattava di Dio, Callas replicò: «Ma come, Dio?». «Maria, il giovane della storia rappresenta Dio, deve essere visto simbolicamente». Seguì un lungo silenzio; dopo di che, «Dio?», esclamò Callas, «ma è da blasfemi!».
Prima di accettare la parte, Callas parlò con diversi amici e, secondo Stancioff, «consultò Joelle de Gravelaine, uno stimato astrologo di Parigi». Cosa che si sarebbe perfettamente attagliata alla concezione che Pasolini aveva di Medea. Quel che vedeva in lei (lo spiegò alla stampa e ne trattò in poesia) non era la voce o la diva, ma la donna. La voleva per «se stessa», esattamente come aveva voluto Citti e Magnani, Ninetto e Mangano.
L’idea di Pasolini era di presentare Medea attraverso immagini, e non un film diretto all’ovvio pubblico operistico che conosceva Callas. E comunque quella forma artistica non gli era mai piaciuta. A diciotto anni era andato al teatro Duse di Bologna, dove aveva visto la sua prima opera, una «brutta» rappresentazione del   Trovatore: aveva avuto un «tale shock», che all’opera non ci era più tornato. Con Ninetto era però andato negli anni sessanta a sentire Giuseppe Di Stefano in un Rigoletto all’aperto, alle Terme di Caracalla; e da allora aveva cominciato a nutrire un «sentimento» d’amore per quel genere. Disse questo, tuttavia, mentre stava lavorando con Callas, quando ogni altra cosa sarebbe sembrata sconveniente; ed era convinto che struggersi al suono della diva che cantava «Vissi d’arte» fosse soltanto «checcheria». La Callas beniamina degli omosessuali di tutto il mondo non lo interessava per niente: gli interessava piuttosto una donna che, pur nella sua modernità, portava dentro di sé qualcosa di antico, misterioso, magico, dei terribili conflitti interiori.
Pasolini fuse la «vera» Callas, che racchiudeva una Medea a lui visibile, con la Medea protagonista del mito antico, una personalità altrettanto viva di quella della diva che gli stava di fronte:questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che vien fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un po’ la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa.
Se questa prospettiva aiutava Pasolini a lavorare, tanto meglio. Rossellini non aveva bisogno di molto per sapere che si trattava di un successo internazionale.
«Conosco le sue capacità professionali», disse Pasolini, «ma per me hanno veramente poco interesse». Le chiese di ricominciare da capo e, per la prima volta di fronte al pubblico, di essere se stessa.
Callas scrisse che la sua storia con Onassis l’aveva lasciata con «nove anni di sacrifici inutili»; forse, interpretare la tragedia di una donna pazza d’amore e poi tradita le sembrava un modo per alleviare quel dolore.
Decise che Pier Paolo non era un intellettuale come tutti gli altri, «con il loro naso sempre tra le pagine di un libro, che non vedono la vita». «Mi sembra di averla sempre conosciuta», disse di li a poco Pasolini, «è come se fossimo stati a scuola assieme». E a un giornalista: «Per me la Callas è come Franco Citti. I due estremi si toccano: i cosiddetti mostri sacri hanno in sé qualcosa di talmente autentico e personale, che è come se fossero presi dalla strada». Persino la Callas, «dalla strada»!
Nessuno pensava che lavorare con «la divina», celebre per il suo perfezionismo, sarebbe stato facile. A vezzeggiarla ci avrebbe pensato Rossellini: l’Euro International Films (un consorzio italo-franco-tedesco, con lo stesso Rossellini e Marina Cicogna come produttori esecutivi) le avrebbe pagato un’assistente personale, una donna di servizio e un autista.
Pasolini la trattò con i guanti fin dal loro primo incontro nel marzo del 1969, cui fece seguito uno scambio di lettere e di telefonate, e i due andarono immediatamente d’accordo. Si sapeva che a Callas piaceva esibirsi in spiacevoli commenti su «omosessuali e marxisti» (a prescindere dall’amicizia); ma niente di tutto questo avvenne. La lavorazione procedette dal primo giorno di quell’estate con la calma di due professionisti animati da mutuo rispetto, avvinti dall’impresa che li accomunava.
Il rapporto assunse toni di un’intimità tutta particolare. In lei Pasolini vedeva una fanciulla ferita, una persona essenzialmente timida che era riuscita a conquistare i più grandi teatri del mondo e a esporsi con un enorme atto di volontà. Riconosceva tutto questo, poiché sentiva le stesse cose dentro di sé: una timidezza radicata nel profondo, un’immensa convinzione e una determinazione a far sì che nulla (o nessuno) interferisse con la realizzazione della sua visione artistica.
Un’aria di amorose corrispondenze, certamente utile come pubblicità, sembrava gradita a entrambi. Quando venne il momento di girare certe scene nella laguna di Grado, Pasolini prenotò per sé, Callas, Ninetto e pochi altri all’hotel Argentina, di proprietà della moglie di Zigaina; mentre il resto della troupe alloggiava altrove. Nel corso di giornate afose, la diva era letteralmente sommersa dagli strati di un pesante costume che Pier Paolo sostenne di aver disegnato personalmente; completamente truccata, rimaneva impassibile per quasi un’ora sul ponte dell’imbarcazione, mentre Zigaina la trasportava con i due cagnolini da Grado a Safon.
Le riprese si protrassero nell’insolita calura del giugno-luglio del 1969. L’adattamento pasoliniano di Euripide venne dapprima girato in Turchia, il cui brullo e primitivo paesaggio (e relative condizioni di vita) andava a raffigurare l’antica Colchide. Grado – dove il saggio Centauro istruisce il giovane Giasone – e piazza dei Miracoli a Pisa costituivano gli analoghi della «razionale» Corinto. Pasolini utilizzò Pisa come già aveva fatto con Bologna, imperturbato di fronte all’implausibilità di antichi greci tra edifici rinascimentali. Quel che importava era che Pisa – alma mater di Galileo – era il luogo simbolico della ragione pratica, e quindi la nemica di tutto ciò che Medea rappresentava.
Stilisticamente consistente fin dai tempi di Accattone, Pasolini voleva riprendere il volto di Callas in lunghi primi piani. Il soprano, abituata alla distanza dal pubblico operistico, cercò di dissuaderlo; ma il regista l’ebbe vinta. Avrebbe forse potuto essere convinta a cantare con un certo impegno; ma le venne chiesto di accennare soltanto una breve ninna-nanna, in greco, al figlioletto di Medea. Accettò, chiedendo però di omettere la scena, dopo aver visto i provini col sonoro.
La stampa li seguiva ovunque: nell’isolata Göreme in Turchia, di cui Pasolini vagheggiava le rocce stranamente sagomate, evocanti un mondo «fuori dal tempo», imbevuto di magia e della comunione col soprannaturale di Medea-la-maga; a Grado, ad Aleppo in Siria, a Tor Caldare e a Tor Calbona, appena fuori Roma. L’assistente   di Callas, Nadia Stancioff, ha scritto delle quattro settimane che trascorsero a Göreme e nel villaggio di Uchisar:
A paragone di quelle degli altri del cast e della troupe, le nostre sistemazioni erano eccezionali. Maria, Bruna [la donna di camera] e io eravamo privilegiate: ci avevano messo al nuovissimo Club Mediterranée. […] Eravamo letteralmente i primi ospiti, tanto che i lavori dovevano ancora finire. Nei corridoi c’era odore di vernice, i bagni erano ancora incompleti e la piscina a forma di fagiolo era completamente vuota. Dalla cucina uscì un aroma di cervella fritte per la nostra cena inaugurale, non per tutti il piatto preferito…
«La divina» superò in alacrità chiunque altro. Arrivava sempre in anticipo, attenta e disponibile; non si lamentò mai. La sua biografa riferisce: In una scena doveva essere ripresa in campo lungo mentre correva disperatamente sul letto asciutto di   un fiume. Indossava una lunga tunica con enormi giri di monili pagani; il sole picchiava, e Maria correva, correva, finché svenne e crollò nel fango. Pasolini e l’intera troupe accorsero e non appena riprese coscienza, le sue prime parole furono: «Scusatemi! Che stupida che sono. Non avrei dovuto farlo; con tutto quel danaro e tutto quel tempo che è costato a tutti».
Per proteggerla dal caldo, veniva trasportata in una portantina che i falegnami della troupe avevano costruito appositamente per lei: Negli spostamenti da un luogo all’altro, Maria ascoltava musica da un mangianastri. Canticchiava, accompagnando canzoni dei Beatles, di Frank Sinatra, o ballate messicane. I suoi pezzi preferiti erano Stormy Weather e Hernando’s Hideaway. Quest’ultima divenne il «motivo conduttore» di Medea; ci eravamo così abituati alle sue improvvisazioni che non facevamo per niente attenzione al fatto che era la Callas a cantare. ( fine terza parte)
Nella gallery fotografica: Maria Callas, Pier Paolo Pasolini e Franco Rossellini all’areoporto di Fiumicino (1969)