Napoli, Teatrino di CorteSan Carlo, Stagione di balletto 2012-2013
Bill T. Jones: “Body against body”
Compagnia Bill T.Jones
Con: Antonio Brown, Talli Jackson, Shayla-Vie Jenkins, La Michael Leonard, Jr., I-Ling Liu, Erik Montes, Jennifer Nugent, Joseph Poulson, Jenna Riegel.
“Spent Days Out Yonder” (2000)
Coreografia Bill T. Jones
Wolfgang Amadeus Mozart: Quartetto per archi No. 23 in fa maggiore, K. 590, Andante
Musica dal vivo Quartetto d’archi del Teatro San Carlo (Violino Cecilia Laca, Luigi Buonomo; Viola Antonio Bossone; Violoncello Luca Signorini)
“Continuous Replay” (1977)
Coreografia Bill T. Jones e Arnie Zane
Musica John Oswald
“Ravel: Landscape or Portrait?” (2012, prima assoluta)
Coreografia Bill T. Jones CON Janet Wong e La Compagnia
Musica Maurice Ravel, Quartetto per archi in fa maggiore
Quartetto d’archi del Teatro San Carlo
Costumi Liz Prince
Luci Robert Wierzel
Napoli, 6 ottobre 2012
Per la terza edizione del benemerito Festival “Ottobredanza” il Teatro San Carlo – o meglio il Teatrino di Corte di Palazzo Reale, elegantissima ma ridotta sede dei due terzi degli spettacoli previsti per l’occasione – ospita il poliedrico e pluripremiato coreografo americano Bill T. Jones, che riceve il suo “battesimo napoletano” portando in scena due lavori già noti al pubblico, con in più una Prima assoluta pensata per il Massimo napoletano.
Definito, come molti sapranno, «un insostituibile tesoro della danza» dal Dance Heritage Coalition nel 2000, Bill T. Jones vanta, tra i numerosi riconoscimenti, il Premio MacArthur “Genius” (1994), il Kennedy Center Honors (2010), il Tony Award 2012 come “Migliore coreografia” per il musical FELA!, da lui stesso ideato scritto e diretto. Il titolo di copertina del New York Times gli attribuisce «il potere di portare il pubblico al delirio», consacrandolo «divo della post-modern dance», una danza contraddistinta dalla forza dirompente della diversità, della variegata mèsse di idee di artista e di uomo impegnato a portare in scena, attraverso i propri lavori, una battaglia sociale e culturale contro i pregiudizi razziali, sessuali e religiosi (che suscita non poche polemiche negli States, dov’è peraltro accusato di volersi imporre quale ambasciatore della “victim art”). L’imponenza della sua figura materializza la musica nella contact-improvisation, ma la sua è una danza multietnica che abbraccia culture diverse e, per questo, complementari, e che sa ben fondersi con il teatro e la musica, anche quella più ricercata, di cui Jones fa uso come testo astratto sul quale ogni movimento è pensato e ragionato.
Così è per il primo dei tre pezzi proposti, “Spent Days out Yonder”, sul Quartetto per archi No. 23 in fa maggiore, K. 590, Andante (1790) di Wolfgang Amadeus Mozart, con esecuzione dal vivo ben eseguita dal Quartetto d’archi del Teatro San Carlo (al violino Cecilia Laca, Luigi Buonomo; alla viola Antonio Bossone; al violoncello Luca Signorini), definito un «pura esplorazione musicale» sul secondo movimento del Quartetto mozartiano, in cui la fluidità dei movimenti dei danzatori, il cui stile naturalissimo salta subito all’occhio dello spettatore più smaliziato, si adegua perfettamente al “colore” della partitura.
La seconda coreografia, “Continuous Replay”, creata originariamente come solo nel 1977 dal compagno di una vita, il fotografo Arnie Zane prematuramente scomparso, con il titolo “Hand Dance”, poi rimontata nel 1991 da Jones per il corpo di ballo, si basa su 45 gesti che si giustappongono in un circuito spazio-temporale in progressivo ampliamento, quale riflessione sulla inesorabilità del tempo, che rappresenta, a detta dello stesso coreografo, «un flusso continuo, uno spazio aperto dove movimento e respiro ricordano insieme, discutono, riflettono». Ad enunciare visivamente questo concetto sono i danzatori ammantati unicamente della propria pelle. Ovvero il nudo integrale. E su questo si concentra, inevitabilmente, l’attenzione di una platea composta da anziani e bambini, addetti ai lavori e non, signore spocchiose e allievi delle scuole di ballo. Nel terzo millennio non è che la cosa sconvolga più di tanto; siamo (tristemente) abituati a corpi in bella mostra ovunque e gli stessi giovanissimi non hanno che da avviare un “clic” del loro telefonino ed ecco fatto. Ma il punto non è questo. Non si discute, qui, la personale visione di chi crea un qualcosa con un qualsivoglia intento, per cui ognuno avvertirà la necessità di utilizzare un determinato mezzo per esprimere un’idea. Tuttavia, alla ricezione, una così ostentata e marcata fisicità esposta – per utilizzare un termine preso in prestito dalla statuaria, giusto perché il corpo dei danzatori è, per carità, quello più lontano dalle volgarità e più vicino alla plastica scultorea – “a tutto tondo” appare forse fuorviante. E questo si è percepito immediatamente in platea: alla prima sospensione musicale ecco l’improvvisa quanto impellente necessità di tossire da parte di molti, cosa che accade spesso in teatro, forse per stemperare un imbarazzo o una tensione, non si sa. L’attenzione si è allontanata inevitabilmente dalla coreografia, dall’analisi del gesto, per concentrarsi su particolari, maschili e femminili, resi ancora più evidenti dalle ridotte dimensioni del teatro – e con tutto ciò qualcuno ha estratto addirittura il binocolo! I pochi che sono riusciti a seguire l’intenzione coreografica di climax e «potenza fisica» (rubo l’espressione ad un’appassionata signora seduta dietro di me) sono stati, come al solito, gli addetti ai lavori avvezzi a questo tipo di “esposizioni”, fermo restando l’amletico dubbio che l’idea di nudo potrebbe anche essere semplicemente e con altrettanta chiarezza espressa, come succede in molti casi, celando le pudende più fastidiose alla vista e molto scomode per il danzatore.
Ultima performance una Prima assoluta, “Ravel: Landscape or Portarait?”, sul Quartetto per archi in fa maggiore di Maurice Ravel (1904), una nuova creazione di grande spessore coreografico che rende magistralmente alla vista la malinconia e la complicata logica interna della musica. Una delle due variazioni coreografiche del terzo movimento (landscape or portrait) viene scelta a caso prima dello spettacolo. La massa diviene il singolo e il singolo la massa; interazione e solitudine di ogni elemento del corpo di ballo, l’uno così diverso dall’altro in una varietà di tipi umani che si soccorrono a vicenda o danzano in disparte, soli.
Bravi gli artisti della Compagnia, fondata nel 1982 dopo 11 anni di collaborazione tra Bill T. Jones e Arnie Zane e attiva in più di 200 città e 30 paesi di tutto il mondo, con la loro fluidità di movimento e la sicurezza di una danza ricca di sfumature multiculturali, dovute alla differente origine dei giovani componenti. Una serata ben riuscita e accolta da applausi fragorosi da parte del pubblico, che ha saputo apprezzare il talento ricercato di un artista d’oltreoceano.