Intervista al regista Enrico Maria Lamanna. Ci sono ispirazioni che trascendono luoghi e si poggiano sulle epoche con tale forza e aderenza da lasciare senza fiato. Sono le ispirazioni che fanno i capolavori. La Bohème di Puccini sembra non volersi proprio fermare a quella Parigi di Murger e le pagine di poesia bruciate per riscaldare la fredda mansarda sembrano dar fuoco ogni volta a rinnovate intuizioni e rappresentazioni. E’ il caso del nuovo allestimento del regista Enrico Maria Lamanna il cui debutto è previsto per domenica 16 settembre al Teatro Comunale di Benevento all’interno della XXXIII Edizione del Festival Benevento Città Spettacolo. Si tratta, in realtà, di un adattamento in napoletano – a cura del giovane Andrea Tartaglia – del Musical Rent di Jonathan Larson, in cartellone a Broadway per 12 anni, che, dopo allestimenti internazionali, è divenuto in un film diretto da Chris Columbus uscito nel 2005. Ovviamente, l’adattamento linguistico – funzionale da un punto di vista metrico più dell’italiano, in quanto l’accentazione del napoletano è più vicina a quella inglese – investe, a giusta ragione, diversi aspetti basilari e performativi di cui il regista ci ha fornito delucidazioni.
Cosa c’è della Bohème di Puccini nel suo allestimento?
Della Bohème di Puccini, a mio avviso, c’è tutto, o di certo, quel tutto visto dagli occhi di un giovane autore morto prematuramente quale è stato Jonathan Larson, compositore e drammaturgo newyorkese, di formazione rock, ma molto attratto da Stephen Sondheim. La Parigi ottocentesca si trasfigura, con Larson, in una New York di fine secolo caotica e malata di Aids, nel “mio Rent” la trasfigurazione compie un ulteriore salto, e da New York passa a Napoli che, distrutta dal caos di rifiuti e di disordini cerca di recuperare la sua inestinguibile bellezza. Non è un caso, secondo me, che le due città sia collocate sullo stesso asse. Se Marcello era un pittore, il suo corrispettivo – Marco- è un regista che cerca di catturare la realtà, e se Rodolfo era un poeta qui sarà un cantautore.
Quali sono stati i punti fermi della sua regia? Quali gli aspetti messi in risalto, quali i messaggi – qualora ce ne fossero- da voler sottolineare?
Gli aspetti da sottolineare, considerata la complessità drammaturgica dei riferimenti sono sicuramente diversi, ma, senza dubbio, il messaggio che voglio evidenziare e lasciare è, senza retorica o campanilismo, la speranza. In Italia, Rent, già rappresentato non ha riscosso grandi successi, forse, perché, effettivamente, troppo lontano dalla realtà italiana. Ho pensato che l’unico modo per conferirgli la giusta importanza e, in un certo senso, ridargli linfa vitale sia quello di ambientarlo a Napoli, e se nell’Ottocento si moriva di tisi, negli anni Novanta si moriva di AIDS, nella mia Napoli si muore di tumore, malattia che in Campania registra drammaticamente il maggior numero di casi soprattutto in prossimità delle discariche.
Nella Bohème di Puccini la morte di Mimì segna la fine delle illusioni giovanili, in Rent, Mimì-tossicodipendente- ritorna alla vita, quali significati ha dato lei a questa “rinascita”?
Mimì, qui, rappresenta quella Napoli malata, a differenza di Angel, che incarna, invece, la purezza incontaminata e ingenua della Napoli del passato che potrebbe risorgere, appunto, e riportarsi orgogliosa ai fasti di una volta, quando era capitale della cultura. Una Napoli, dunque, che vuole rinascere dalle sue ceneri, che si erge a paradigma di una condizione esistenziale precaria e malata di superficialità, trascuratezza e dimenticanza, in cui i valori dell’Arte e della bellezza sono dispersi confusi e sostituiti, sotto ogni aspetto, con quelli dell’utile. Mimì, allora, morirà ogni volta che un giovane artista dovrà abbandonare la propria ispirazione. Mimì rinascerà ogni volta che una città troverà il modo di rialzarsi e un giovane nessun motivo per andare.