Torino, Teatro Regio:”Un ballo in maschera”

Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2011/2012
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, da Gustave III ou le bal masqué di Eugène Scribe.
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo GREGORY KUNDE  / GIANCARLO MONSALVE
Renato GABRIELE VIVIANI / MARCO DI FELICE
Amelia OKSANA DYKA / ANNA PIROZZI
Ulrica MARIANNE CORNETTI /ELISABETTA FIORILLO
Oscar SERENA GAMBERONI /BARBARA BARGNESI
Silvano MARCO CAMASTRA
Samuel ANTONIO BARBAGALLO
Tom GABRIELE SAGONA
Un giudice LUCA CASALIN
Un servo DARIO PROLA
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Lorenzo Mariani
Scene Maurizio Balò
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Andrea Anfossi
Allestimento Teatro Regio in coproduzione con Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e Teatro Massimo Bellini di Catania
Torino,  27 e 30 giugno 2012

Un ballo in maschera può essere letto, in fondo, come un dramma borghese, nel quale le vicende politiche (abbondantemente annacquate dal trasferimento in America) non sono che lo sfondo di una storia passionale in cui una donna è contesa e lacerata tra il marito e l’amante, per giunta legati da reciproca amicizia. Non ha quindi nuociuto lo spostamento alla prima metà del Novecento operato da Lorenzo Mariani, creatore di questa regia che il Regio già aveva proposto nel 2004. Regia che richiede un certo sfoggio di abilità ginniche agli interpreti, in particolare al paggio costretto a fare ripetute ruote (e Serena Gamberoni, per assicurare che non si fosse ricorsi a controfigure, si è esibita in una ruota anche quando è entrata al proscenio a raccogliere gli applausi) e al conte che deve saltare da un carrello portavivande (non male per l’ultracinquantenne Kunde); ma per il resto si attiene per lo più a moduli convenzionali e, come tali, di sicura efficacia. Quando questi moduli vengono abbandonati si rimpiange il loro abbandono, e penso alla scena del finale II in cui i congiurati sputano addosso ad Amelia, con un gesto squallido e antidrammaturgico, dato che, nella versione di Somma-Verdi, essi non si rendono conto della dinamica degli avvenimenti e non avrebbero ragioni per disprezzare la moglie di Renato. Le scene sono di taglio volutamente bozzettistico (emblematici i patiboli del II atto dalla curiosa geometria), e contribuiscono a creare una discrasia tra la dimensione quotidiana data alla vicenda ed il suo inserimento in uno scenario di esplicita finzione teatrale.
Una certa delusione è venuta dalla buca d’orchestra, a causa di una direzione discontinua e poco personale, che nulla aveva a che vedere con le buone prove offerte da Renato Palumbo in altre occasioni: moscia nel preludio, quando i temi andrebbero staccati con nettezza per delineare la contrapposizione tra i due schieramenti di cortigiani; roboante e bandistica negli assiemi concitati, nei quali avrebbero dovuto emergere le personalità dei singoli protagonisti (che venivano invece schiacciate in atmosfere rumorose), ed in generale là dove si sarebbe dovuto dare spazio alle voci.
Il 27 giugno (prima compagnia, anche se queste definizioni di “prima” e “seconda” rischiano di dar adito a preconcetti spesso inappropriati) al centro dell’attenzione era il tenore Gregory Kunde, che ha debuttato il ruolo di Riccardo. Kunde, di formazione e carriera belcantista, affronta il ruolo come tenore verdiano lirico spinto: un Riccardo, insomma, che guarda più all’Otello di Verdi (prossimo debutto di Kunde) che a quello di Rossini (di cui Kunde è stato più volte applaudito protagonista). Questa scelta penalizza un poco il tenore da un punto di vista strettamente vocale, poiché il timbro assume qua e là tratti ruvidi e la potenza della voce non riesce a tener testa ad alcuni clangori orchestrali. Ciò che non viene mai meno è l’abilità di Kunde come interprete, che emerge nel tono ironico e distaccato col quale sa far tralucere la falsità della sua canzone da marinaio e la sua incredulità di fronte alla profezia nel concertato del finale I; ed anche in tanti piccoli dettagli cui normalmente non si presterebbe attenzione, come il «tacete» detto ad Oscar, quando questi rischia di renderlo riconoscibile, con un accento che rivela il suo bonario rimprovero. Ma il meglio dell’interpretazione giunge nell’aria del III atto, affrontata con le giuste tinte ed un afflato affettivo che rivelano la personalità contrastata del governatore, teso tra la spinta volontaristica della passione (cui sono riservati gli sforzi sofferti della cabaletta) e la nostalgia dell’abbandono.
Il soprano Oksana Dyka (Amelia) è dotata di uno strumento prodigioso per volume ed estensione che le potrebbe permettere di diventare un importante soprano drammatico; per raggiungere questo obiettivo è però necessario un affinamento tecnico che limiti l’acidità e doni una certa dose di morbidezza al suo canto limando le spigolature, che ora troppo spesso provocano quelle che in gergo si chiamano “urla”, che hanno caratterizzato parecchi suoi attacchi nel duetto del II atto. Decisamente su un altro piano il soprano leggero Serena Gamberoni, che ha tratteggiato un Oscar allegro e spensierato, a tratti irridente ma pur sempre mantenendo la sua eleganza sbarazzina, perfetto nello stacco delle frasi e capace di rendere quella brillantezza che gli ha permesso di essere l’unico personaggio a far distinguere la propria personalità nel quintetto che conclude la prima scena del III atto, mente Amelia, Renato e i congiurati venivano spianati da uno dei punti più bassi della concertazione di Palumbo. Venendo alle voci gravi, il Renato del baritono Gabriele Viviani ha rivelato un buon fraseggio nell’«Eri tu» del III atto, anche se il suo timbro non molto ammaliante rischia di far scivolare la sua interpretazione in un generico “senza infamia e senza lode”. E il mezzosoprano Marianne Cornetti (Ulrica) si trova a proprio agio nel registro acuto ed in quello grave, nei quali la voce è espressiva e corposa, mentre un indebolimento nei passaggi intermedi inficia un po’ la capacità di comunicare la terribilità della possessione diabolica espressa dalla cabaletta. Cabaletta nella quale si è trovata in difficoltà pure Elisabetta Fiorillo, perché, ad onor del vero, bisogna segnalare che anche in questo passo l’orchestra soffocava decisamente le voci. La Fiorillo, che ha fatto emergere la figura inquietante della maga grazie alle eccezionali risonanze del registro grave (intatto, a differenza di quello acuto) che fanno venire i brividi fin dall’attacco di «Re dell’abisso», cantava il ruolo di Ulrica la sera del 30 giugno, la cui recita è stata dominata dalla figura di Amelia. Il soprano Anna Pirozzi, che proprio in questi mesi sta iniziando a farsi strada su palcoscenici di rilievo, ha infatti sfoggiato una bella tecnica di canto fondata sulla legatura, che le permette di essere dolce ed espressiva (e penso in particolare al duetto del II atto ed all’aria «Morrò ma prima in grazia») senza trascurare di dar peso ai momenti di tensione drammatica cui sono riservati alcuni acuti incisivi, forse lievemente acidi ma mai sfacciati. Si è apprezzata, in particolare, nell’ultimo duettino con Riccardo, l’abilità di trasmettere la palpitazione di Amelia pur nel realistico misurare la voce di chi non deve farsi udire dai presenti. Decisamente discontinuo il tenore Giancarlo Monsalve (tendenzialmente baritonaleggiante, forse anche per lo sforzo che il registro acuto gli comportava), che solo qua e là è riuscito ad imprimere personalità alla figura di Riccardo, per lo più gestita con un’approssimazione che diveniva tanto più fastidiosa quanto più il ruolo del conte assumeva dimensione protagonistica. Più centrato il Renato tratteggiato da Marco di Felice, il quale ha compensato una voce non troppo ricca di armonici (che lo ha penalizzato un po’ al momento del ricordo melanconico della felicità perduta) con un’espressività decisa, a tinte forti, che è emersa nella calibratura di singole espressioni: come l’«avvenir» che chiude l’aria del I atto, sul quale la lieve messa di voce sottolineava il paternalistico rimprovero all’amico spericolato, o il nome di Amelia, pronunciato con accento disperato nel finale II dopo lo svelamento della moglie. Il soprano Barbara Bargnesi è stata un valido Oscar. Dignitosi gli interpreti dei ruoli secondari, che hanno coperto le recite di entrambe le compagnie. Foto Ramella&Giannese © TeatroRegioTorino