Il parto della primogenita Muffy non fu facile. Il travaglio durò diciassette ore e, una volta partorita, quando Beverly Sills chiese di vedere la neonata, i dottori nicchiarono e non gliela fecero vedere. Le dissero che aveva dato alla luce una bambina di circa quattro chili, quindi seppe di aver fatto nascere una bella bimba robusta, ciònonostante non le permettevano di vederla. Beverly Sills non poté non pensare che la cosa fosse molto strana e si sentì molto infastidita. Continuavano a dirle: «La vedrà più tardi». Beverly sperò che fosse un tentativo per farla riposare un po’ dopo il lungo travaglio, ma non era ingenua: c’era qualcosa che non andava. Alla fine, uno dei medici le disse che sua figlia era nata affetta da malattia da membrana ialina e ittero. Muffy – non la chiamarono mai Meredith – aveva difficoltà respiratorie e la misero in un’incubatrice. Quando finalmente la vide per la prima volta, Muffy, bionda dalla testa ai piedi, aveva la febbre altissima: era completamente itterica e respirava molto velocemente. Fortunatamente, la piccola sopravvisse grazie alla sua costituzione robusta ed uscì dall’incubatrice dimagrita di un chilo appena.
Otto giorni più tardi, riuscì a portarla a casa, con i piedini pieni di segni delle iniezioni che le avevano fatto per curarla. Beverly si aspettava che crescesse cagionevole di salute e delicata, ma dal momento in cui Muffy entrò a casa sua divenne una bimba sana e felice, assolutamente deliziosa: una bambina bella grande, paffuta, vivace e divertente. La Sills non aveva mai visto una bambina più simpatica di Muffy, che la sorprendeva costantemente e trovava sempre modi per farla ridere. Erano tutti innamorati di Muffy: lei, Peter e anche le sue sorellastre. Anzi, Beverly era pazza di sua figlia. Non vedeva l’ora che si svegliasse al mattino per vedere cosa avrebbe fatto. A quasi due anni, Muffy era una piccola adorabile e curiosa. Riusciva a completare puzzle destinati a bambini di 4-5 anni e Peter le aveva già insegnato a piegare i tovaglioli per apparecchiare la tavola. Sembrava comprendere le cose molto rapidamente. Quando tornavano dalla drogheria, Muffy metteva a posto i cibi in scatola riconoscendo le etichette. Quando facevano il bucato, Muffy si sedeva sul pavimento e aiutava a separare i panni in base al colore, che era una cosa piuttosto degna di nota per la sua età.
Proprio a causa di ciò che era capace di fare, Beverly Sills era preoccupatissima dal fatto che non riuscisse a dire nessuna parola che non fosse scotta. Quella parolina le uscì dopo che una volta si avvicinò ad un fornello elettrico – era troppo bassa per accorgersi che la madre aveva tolto la teiera da sopra il fornello, ma che non lo aveva spento. Beverly aveva appena riempito la teiera di nuovo e la stava rimettendo al posto quando vide la manina della bambina che si avvicinava al fornello. Senza pensarci un attimo, allontanò la mano della piccola con degli schiaffetti gridando: «Scotta! Scotta! Scotta!». Non l’aveva mai toccato, né l’aveva mai sgridata in quel modo prima e per il resto della giornata la bambina continuò a girare per la casa dicendo: «Scotta, scotta, scotta!». Quando quella sera Peter rientrò a casa, Muffy continuò. Muffy era lieta che la cosa rendesse lieti i suoi genitori e continuò a dire «Scotta, scotta, scotta!» per giorni.
Sapendo che era capace di parlare e che era molto vivace e constatando che, però, la bambina non pronunciava nessun’altra parola, la Sills cominciò a preoccuparsi dell’udito della bambina. L’aveva già portata da un medico, il quale aveva aveva agitato il mazzo delle sue chiavi di fronte alla piccola e quando la bambina si era lanciata ad afferrarle affermò: «Mi sembra ovvio che la bambina ci senta.»
Beverly Sills pensò che quella era piuttosto la prova che Muffy ci vedeva, per cui decise di sottoporla a delle analisi dell’udito. Prese un appuntamento con un luminare del campo, il dottor Flake, ma dovette attendere due settimane prima della visita. Durante quel periodo, la Sills lesse un articolo sull’afasia che diceva che era una malattia che permetteva di udire ma non di assimilare i suoni in parole dotate di significato. Con l’episodio dello «Scotta, scotta, scotta!» in mente, Beverly decise di portare Muffy all’ospedale pediatrico di Boston dove i medici diagnosticarono alla piccola l’afasia. La spia, dissero, era data dal fatto che a Muffy piaceva camminare scalza, in punta di piedi, che era uno dei sintomi dell’afasia. Finalmente arrivò il giorno della visita col dottor Flake, il quale si chiuse da solo con Muffy nel suo studio, per uscirne dopo circa cinque minuti per parlare con Beverly e Peter. «Sua figlia soffre di una profonda perdita dell’udito,» disse. «Dovreste procurarle un apparecchio acustico e iscriverla ad una scuola. Istruitela quanto meglio e più velocemente che potete.» Quando Beverly gli chiese se Muffy potesse avere problemi di afasia, il medico rispose: «Sua figlia non è afasica. Non ha problemi di apprendimento. Il suo solo problema è che non sente.»
Peter e Beverly si attivarono rapidamente per far avere a Muffy il suo apparecchio acustico, che aveva le dimensioni di un accendino grande e che doveva indossare insieme ad una specie di pettorina. Beverly e Muffy diedero inizio ad una gara continua per vedere quanto spesso Beverly riuscisse ad evitare che la bambina distruggesse l’apparecchio. Muffy dimostrava un’incredibile immaginazione quando si trattava di nasconderlo. Un giorno la Sills passò ore a cercarlo per poi trovarlo nascosto in una delle sue scarpe. Muffy, naturalmente, si guardava bene dal dire dove lo nascondeva. Pensava di star giocando il gioco più divertente del mondo. La sordità di Muffy devastò la Sills, ma la rese determinata ad aiutare sua figlia a studiare, crescere forte e condurre una vita il più normale possibile. Il medico suggerì di iscrivere la bambina alla Sarah Fuller Foundation School, che frequentò per un anno. Lì apprese a leggere l’alfabeto, a pronunciare la lettera “B” e le parole che cominciano per wh. Tutto ciò all’età di due anni. La madre di Beverly Sills e suo fratello Stanley le diedero lo stesso consiglio: non aveva senso star lì a fissare la bambina. Con un certo qual piglio energico, la nonna decise che Muffy doveva avere un trattamento speciale: insistette affinché la bambina seguisse delle lezioni d’arte e di danza e le cucì tutti i suoi abiti – Muffy aveva un guardaroba da fare invidia, per una bambina della sua età. Ben prima che la bambina imparasse a leggere il labiale, nonna Sills prendeva la bambina e la feceva sedere sul suo grembo e le parlava continuamente con tono rassicurante per ore.
Anche Peter fece la sua parte in modo meraviglioso. Dopo una giornata di lavoro al Globe, chiamava Beverly dall’ufficio e le diceva: «Non farle il bagnetto. Voglio fare io il bagnetto a Muffy.» E non si trattava mai di un bagnetto qualunque. Papà rientrava a casa sempre pieno di giocattoli di gomma e di spugne che squittivano e le facevano il solletico quando il padre le strofinava contro la sua pelle. Fu Peter a fare il primo bagnetto a Muffy. E quando Peter le faceva il bagno, Muffy diventava Esther Williams in uno spettacolo di Busby Berkeley. Le stesse attenzioni Peter le metteva nella scelta dell’abbigliamento per Muffy: le comprava maglioni con le sue cifre. Peter teneva a che Muffy cominciasse a leggere il prima possibile, perciò tutto ciò che le comprava aveva le cifre o il nome della bambina stampato. Muffy crebbe divenendo l’orgoglio e la gioia di Peter: era una vera Greenough, una combattente, sempre decisa a riuscire al meglio delle sue possibilità, mai spiacevole o maleducata. Muffy ha dovuto scalare molte montagne e molti sono stati i successi che ha riportato, fino a diventare una donna autonoma, con un impiego nel campo della grafica e una casa tutta sua. Sfortunatamente, invece, suo fratello Bucky non ha potuto esperire gli stessi successi.
Peter Bulkeley Greenough Jr. nacque il 29 giugno 1961. Alla nascita pesava quasi cinque chili ed era un bambino paffutello e felice. Quando Bucky aveva due mesi, Beverly Sills fece venire a casa un fotografo per ritrarre suo figlio. Il fotografo le disse che pensava che ci fosse qualcosa che non andava nel bambino. Non riusciva ad attirare l’attenzione di Bucky. Il bambino non seguiva l’uccellino di plastica attaccato alla macchina fotografica. Dopo che il fotografo le fece notare questa cosa, Beverly cominciò a osservare attentamente suo figlio. Sembrava avere degli spasmi e momenti particolari in cui i suoi occhi si sbarravano in maniera impressionante e perdeva il controllo delle mani. La Sills cominciò a temere che Bucky avesse una qualche specie di malattia nervosa. Però dopo questi momenti si calmava. Bucky era un bambino straordinariamente bello e allegro, ma era quasi impossibile incrociare il suo sguardo.
Al compimento del sesto mese, Beverly Sills portò il figlio all’ospedale pediatrico di Boston. Le dissero che suo figlio era ritardato: all’epoca, non si sapeva nulla dell’autismo. I dottori le dissero che Bucky non avrebbe mai parlato e non avrebbe mai sviluppato il necessario controllo degli sfinteri. Quando Beverly e Peter lasciarono l’ospedale, lei disse: «Bene, l’unico aspetto positivo della giornata di oggi è che è il giorno peggiore della nostra vita. D’ora in poi, le cose non potranno andare peggio di così.» Non ci furono miglioramenti per Bucky, I suoi problemi non peggiorarono con la crescita – semplicemente non avevano scoperto la portata del suo handicap fino in fondo. Il suo bel bambino dagli occhi marroni rimaneva sdraiato, immobile sullo suo stomaco per ore; a quel tempo, la sua mancanza di interesse per tutto ciò che lo circondava non la percepivano come un sintomo di autismo. Ciò non significa che Bucky fosse un bimbo docile, perché non lo era: a volte diventava iperattivo e autolesionista. All’età di cinque anni ebbe la sua prima crisi epilettica. Quando cominciò ad avere attacchi con una certa regolarità, avevano già imparato a mettergli un cucchiaio fra i denti e a girarlo su un fianco. Solo quando arrivò all’età di ventidue anni appresero che era anche sordo.
Le reazioni di Beverly e Peter alla condizione dei loro figli furono diversissime. Seppur addolorato, Peter era uno stoico e, per lui, la vita doveva continuare, qualsiasi cosa accadesse. Beverly non era stoica e la situazione finì per influenzarne il comportamento. Non si allontanava da casa: divenne molto casalinga, si prendeva cura dei bambini, cucinava, faceva i letti e cercava di non pensare agli handicap dei suoi figli. Smise di volare a New York per far visita alla madre e cancellò le lezioni settimanali con Estelle Liebling. La madre di Beverly decise allora di volare lei a Boston e si dimostrò di grande forza e supporto. Anche quando fu chiaro che Bucky sarebbe finito in una scuola speciale, la fede in Dio della signora Silverman non vacillò mai: «So che è dura constatare quanto sia gravemente malato tuo figlio, ma sei una donna ricca, quindi tuo figlio potrà avere le cure e l’assistenza migliori.» Il potenziale di Bucky era notevolmente limitato, quindi non avrebbe mai scalato nessuna montagna e men che mai una collina. La prima volta in cui i suoi genitori riuscirono a incrociare il suo sguardo fu quando aveva ventiquattro anni – nell’istituto in cui era stato ricoverato, l’Eden Institute, gli avevano insegnato sei segni della LIS. Quelli furono i primi mezzi di comunicazione di Bucky. E fu la prima volta in cui il ragazzo riuscì a concentrare il suo sguardo su qualcosa.
Se la sordità di Muffy fece cadere in depressione Beverly Sills, l’autismo di Bucky la distrusse. Era scioccata. Peter faceva del suo meglio per tirarla su. Nel frattempo, Sarah Caldwell era diventata una buona amica della Sills. Nel febbraio del 1962, le affidò il ruolo di Manon in una produzione in cui cantavano anche i suoi colleghi del City Opera John Alexander e Norman Treigle. La produzione della Caldwell era di prim’ordine: era una regista ingegnosa e un’ottima direttrice d’orchestra – per l’occasione ingaggiò la Boston Symphony Orchestra che fece un ottimo lavoro. La Sills, Alexander e Treigle formavano un team prodigioso. La loro Manon riscosse un notevole successo di pubblico e critica.
Il suo ritorno all’opera le causò una reazione curiosa. Beverly Sills amava cantare e la parte migliore dell’essere una cantante d’opera erano sempre state la preparazione e le prove. Anche esibirsi le procurava piacere puro, ma non fu così quando cantò Manon in quell’occasione. Non sentì più quel piacere genuino dopo aver appreso dei problemi dei suoi figli. Ma Manon le piaceva per un motivo diverso: per tre ore ogni sera riusciva a dimenticarsi dei suoi problemi per concentrarsi su quelli dell’eroina di Massenet. Era una via di scampo – questo era l’opera per la Sills. Non vedeva l’ora di recarsi in teatro per diventare qualcun altro. Nonostante ciò, comunque, lei e Peter Greenough divennero molto attivi nella prevenzione dei difetti genetici.