Venezia, Teatro La Fenice: “La Bohème” in cornice

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Lirica 2012
“LA BOHEME”

Scene liriche in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scènes de la vie de bohème di Henri Murger
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo
GIANLUCA TERRANOVA
Marcello SIMONE PIAZZOLA
Schaunard ARMANDO GABBA
Colline GIANLUCA BURATTO
Benoit WILLIAM CORRO’
Alcindoro ANDREA SNARSKI
Mimì KRISTIN LEWIS
Musetta FRANCESCA SASSU
Parpignol CIRO PASSILONGO
Un venditore ambulante COSIMO D’ADAMO
Un sergente dei doganieri SALVATORE GIACALONE
Un doganiere NICOLA NALESSO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Daniele Callegari
Maestro del Coro Carlo Marino Moretti
Maestro del Coro a voci bianche Diana D’Alessio
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
Luci Fabio Berettin
Nuovo allestimento del Teatro La Fenice
Venezia, 18 maggio 2012

Questa volta la romantica soffitta si apre all’interno di una cornice luminosa che rappresenta, sul modello delle luci del varietà, i luoghi-simbolo della Ville lumière: la Tour Eiffel, il Moulin Rouge, l’Arco di Trionfo, la Chiesa del Sacro Cuore. La sua intensità varia a seconda del carattere della scena, sulla quale talora incombe una grande luna, pallida e maculata, testimone impassibile dell’incosciente allegria come della tristezza infinita, dell’amarsi e del lasciarsi, così quasi per gioco, che segnano la vita dei paradigmatici bohémiens immortalati da Puccini. Si tratta di un allestimento scenicamente tradizionale, in cui peraltro si fa uso anche di siparietti e strutture girevoli.
La maggior parte degli interpreti vocali, oltre al direttore, hanno trovato solo nel corso dell’esecuzione un accento più adeguato, un canto capace anche di nuances, arricchito da una maggiore varietà di colori per assecondare le raffinatezze di una partitura, che in anni ormai lontani fu guardata con sufficienza da certi seriosi difensori delle italiche sorti musicali, e che invece continua a rivelare la statura di un musicista assolutamente geniale e perfettamente aggiornato su quanto stava avvenendo nel panorama musicale dell’Europa fin de siècle. Nel primo quadro purtroppo si è sentito qualche eccesso di stampo verista, una vocalità a volte pesante e gridata, oltre a un’orchestra dalle sonorità spesso troppo decise e sottoposta a un’agogica eccessivamente serrata e uniforme: il che francamente alterava un po’ tutto il cesello disegnato dall’autore. Anche le parti in cui si svolge il cosiddetto “canto di conversazione” non erano sempre adeguatamente brillanti per i motivi appena indicati.
Gianluca Terranova, nei panni di Rodolfo, è apparso dotato di una voce di contraltino alla Lauri Volpi, a volte tremula ed incerta nell’intonazione (ma il tenore ha fatto sapere di essere indisposto). In «Che gelida manina» i troppi portamenti, oltre a certe durezze e increspature vocali, hanno compromesso l’espansione lirica che deve emergere da questo brano giustamente famoso, com’è risultato evidente soprattutto quando ha intonato «Talor dal mio forziere».  Anche in «Io resto» l’artista ha cantato con un certo impaccio e una voce che rimaneva in gola.
Il Marcello di Simone Piazzola si è segnalato per il bel timbro baritonale, forse vagamente sfuocato nel registro grave, ma con la necessaria verve che anima un personaggio piuttosto umbratile: allegro e cupo, innamorato e geloso. Kristin Lewis ha prestato a Mimì una voce eccessivamente corposa e un po’ troppo vibrata, rivelando nell’aria delicata in cui si presenta a Rodolfo una pesantezza di tono davvero poco adatta ad esprimere la predilezione della  «gaia fioraia» per «quelle cose ch’han nome poesia»: spingeva troppo e, anche lei, faceva sentire un’eccessiva propensione ai portamenti. In particolare «Ma quando vien la sera» è stato intonato troppo forte, senza adeguati colori e mezze voci.
Analogamente Gianluca Buratto (Colline) ha cantato troppo sonoramente e con certi tratti di Verismo, evocando l’aborrita (da Puccini) “Giovane Scuola”, mentre Armando Gabba ci ha conseganto uno Schaunard a volte penalizzato da un largo vibrato che andava a scapito dell’agilità richiesta a volte dalla parte. Sufficientemente spiritoso e vivace, anche nella gestualità, il Benoît di William Corrò.
La scena del secondo quadro, che si svolge nel Quartiere Latino, è inizialmente divisa in due: nella parte superiore l’animazione della vigilia di Natale con sullo sfondo edifici che hanno dipinte sulla facciata enormi e colorate immagini pubblicitarie; nella parte sottostante un’affollatissima stazione del Métro. Dal punto di vista vocale si è segnalato positivamente il coro, perciso e coeso in questa parte piuttosto dinamica e brillante. Divertente, ma a volte inopportunamente farsesco il prosieguo dell’azione in palcoscenico. Mimi e Marcello più o meno a  livello di «Signorina Mimì, che dono raro le ha fatto il suo Rodolfo?» cominciano a ballare per strada un’opinabile marcetta campagnola. Musetta poi si presenta al Caffè Momus indossando un vestitino verde pisello: una sorta di Peter pan in gonnella recando in capo un diadema da cui spunta, per così dire, una pianta cespugliosa. Ma il suo Valzer, per la voce di  Francesca Sassu, è risuonato con adeguata leggerezza, agilità, presenza scenica. Altra trovata comica: Marcello assiste imbavagliato e legato ai polsi con delle sciarpe allo streep tease accennato dalla sua infedele amante.
Nel quadro terzo, che si apre sulla Barriera d’Enfer, si erge tra la neve, gli spazzini e le lattaie l’edificio girevole di un’osteria, che da una parte mostra l’interno con al piano superiore Musetta che dà “lezioni di canto” ai viaggiatori. All’esterno la conversazione tra Mini e Rodolfo si è svolta in modo piuttosto sbrigativo, eppure la struggente bellezza della musica di Puccini è  riuscita ad imporsi ugualmente con tutta la sua vena tragica e lirica nello stesso tempo. Le cose hanno cominciato a funzionare meglio a partire dalla scena con Marcello e Rodolfo, e soprattutto nel successivo  duetto tra Rodolfo e Mimì, dove le voci e l’orchestra hanno fatto sentire tutto il lirismo del momento in cui decidono di rinviare il loro addio «alla stagion dei fior»: finalmente si sono sentiti in buca e sul palcoscenico un bel legato, tempi adeguatamente dilatati e le giuste nuances.
Ultimo quadro. Sullo sfondo della silhouette degli edifici del Quartiere Latino avviene un suggestivo passaggio di scena con gli spazzini che spalano la neve. Poi si vede di nuovo la soffitta, seppur da un’altra angolazione. Il clima prima nostalgico e poi brillante, reso dagli interpreti con pathos e scaltrezza dal punto di vista sia vocale che gestuale, piomba nella tragedia con l’arrivo di Mimì, preceduta da Musetta. Quest’ultima ha confermato, anche in questa occasione, le sue doti, apparendo mestamente leggera ed espressiva. Ma una piacevole sorpresa è stata l’aria di Colline «Vecchia zimarra», che ha messo in evidenza il timbro scuro e omogeneo nei vari registri, la voce ferma di Gianluca Buratto, la composta commozione del “filosofo” nel dare l’addio ad un simbolo della vita bohémienne, scanzonata e ribelle, che volge ormai al termine. Ma anche «Sono andati» ha rivelato una  Kristin Lewis capace – ora sì – di adeguato senso del colore, buon controllo della voce, sicera commozione. Suggestiva, inoltre, la rievocazione del primo incontro tra Rodolfo e Mimì sia per la maggiore duttilità delle voci, sia per la morbidezza degli impasti orchestrali e l’allargamento dei tempi rispetto a quanto si era sentito nel primo quadro. Nel finale, reso con la giusta intensità anche dal punto di vista gestuale, ritorna la cornice luminosa, da cui Rodolfo ora rimane fuori. Un altro modo simbolico per indicare il ritorno alla realtà del poeta, come di tutta l’allegra brigata di cui era parte, dopo il sogno, dopo la bohème. Calorosi applausi hanno salutato uno per uno gli interpreti e i resposabili dello spettacolo.
Foto Michele Crosera – Teatro La Fenice