Enrico Dindo e le suites di Bach

Cremona, Teatro Ponchielli, XXIX  Festival Monteverdi 2012
LE SUITES PER VIOLONCELLO DI BACH – Grandi architetture del contrappunto
Enrico Dindo,
violoncello 
con il commento di Oreste Bossini
Enrico Dindo suona il violoncello Pietro Giacomo Rogeri (ex Piatti) del 1717 affidatogli dalla Fondazione Pro Canale 
Concerto di giovedi  10 maggio
Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello n. 1 BWV 1007 in sol maggiore;   n. 3 BWV 1009 do maggiore;   n. 5 BWV 1011 in do minore.
Concerto di venerdi 11 maggio
Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello n. 2 BWV 1008 in re minore;   n. 4 BWV 1010 in mi bemolle maggiore;   n.6 BWV 1012 in re maggiore.
Cremona, 10, 11 maggio 2012
La forma, le sue regole e ciò che comporta rispettarle o meno: è questo un possibile filo conduttore per comprendere le due serate che il Festival Monteverdi di Cremona ha dedicato alle Suite per violoncello di Bach. Sul Palco Enrico Dindo, premio Rostropovich nel 1997, con un Pietro Giacomo Rogeri del 1717; accanto a lui Oreste Bossini, voce di Radio 3. Insieme conducono un prologo: è un tentativo di spiegarsi al pubblico, di giustificare una serie di scelte che vanno dall’edizione usata al perché dello strumento moderno. Una cosa del genere, al Ponchielli, non la si vedeva da anni, e malgrado le buone intenzioni non si è riusciti a centrare l’obiettivo: è quantomeno un rischio, nel epoca dei “format”, non adeguare i contenuti ai contesti, mettendo da parte gli statuti e i tempi della comunicazione.
Dopo dieci minuti di pausa tocca al violoncello, giovedì le Suite dispari e venerdì le pari. Dindo apre le danze giocando da subito con la tradizione esecutiva, nella pagina bachiana cerca il nuovo, il non ancora ascoltato, rendendola però sovrabbondante. L’obiettivo dichiarato è di tornare all’origine: in questa direzione va la scelta del manoscritto vergato da Maria Magdalena come testo base per l’esecuzione. Ma nelle mani dell’interprete questo testo si trasforma in un canovaccio, in una tela le cui figure sono tratteggiate a carboncino in attesa di essere riempite. E Dindo sceglie colori inusitati ed estranei a Bach: il risultato è quasi manieristico, come per la Sarabanda dalla Suite n.5 che suona senza soluzione di continuità quasi fosse una serie dodecafonica. Non mancano momenti di chiara intensità, eppure il fatto di concentrarsi sul dettaglio, sull’arcata piuttosto che sulla legatura, rende opaco il senso generale, decostruisce il contrappunto che è segnato su carta. Tante le imprecisioni, in aumento proporzionale alle difficoltà tecniche, ma al di là di questo c’è un tentativo di dare corpo all’effimero, al perituro, che spesso non passa il limite dell’effetto timbrico, appesantendo l’ascolto.
Alla fine il pubblico è diviso: c’è chi applaude entusiasta, richiamando più volte Dindo sul palco, e chi va via prima del bis, rispettivamente la Gavotte I dalla Suite n.5  (giovedì) e il Preludio della Suite n.1 (venerdì), quasi a voler indicare che il discorso è impossibile da chiudere. Così è infatti, e tanto Dindo quanto i suoi ascoltatori lo sanno. C’è da chiedersi perché, altrimenti, andremmo ancora a sentire musica classica. Foto Federico Zovadeli