Bologna, Teatro Comunale, Stagione lirica 2011/2012
“JAKOB LENZ”
Opera da camera in dodici quadri e un epilogo. Libretto di Michael Fröhling dalla novella Lenz di Karl Georg Büchner.
Musica di Wolfgang Rihm
Jakob Lenz TOMAS MOWES
Oberlin MARKUS HOLLOP
Kaufmann DANIEL KIRCH
6 stimmen ANNA MARIA SARRA (spr. 1)
PAOLA FRANCESCA NATALE (spr.2)
ALENA SAUTIER (mspr.1)
ROMINA BOSCOLO (mspr. 2)
GABRIELE RIBIS (bs.1)
CHRISTIAN FARAVELLI (bs. 2)
2 kinder ANNA PITZALIS
VALERIA CAMMARATA
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Marco Angius
Regia, scene e luci Henning Brockhaus
Costumi Giancarlo Colis
Allestimento Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con il Teatro Rossini di Lugo
Bologna, 13 aprile 2012
La comparsa di un titolo contemporaneo (o quasi) nella stagione di un teatro d’opera è sempre motivo di gioia e di speranza. Nella stagione 2012, il Teatro Comunale di Bologna ha deciso di riprendere una messinscena di Macerata del 2006 di Jakob Lenz, opera da camera del 1979 del tedesco Wolfgang Rihm, che quest’anno compie 60 anni, considerato tra i maggiori compositori viventi.
Non è facile comprendere il perché di tanto successo. La nota biografica sul sito della Universal Edition non fornisce un grande aiuto in tal senso, ma se non altro assicura al lettore un minuto esilarante, regalando frasi memorabili che vanno dall’intimidazione (“Fa anche parte di una serie di influenti commissioni in Germania, cosa che gli conferisce voce in capitolo nelle decisioni riguardanti le condizioni di lavoro dei suoi colleghi musicisti”, da leggersi con accento siculo) alla cieca adorazione (“La sua conoscenza della musica è vasta. Ma sembra anche che sappia tutto ciò che vale la pena conoscere riguardo la letteratura, pittura, architettura, filosofia, e attinge liberamente da quelle discipline come fonti di ispirazione [N.d.R: mentre evidentemente tutti gli altri compositori al massimo leggono Harry Potter, ma solo se ci sono le figure]) al delirio imperiale (“Che solisti, gruppi cameristici e orchestre mettano in programma i suoi lavori è ormai una cosa ovvia”).
Le critiche entusiastiche e prive di ombre alla prima di Jakob Lenz tenutasi ad Amburgo nel 1979 riportate nel programma di sala del Teatro Comunale fanno pensare che l’allora ventiseienne Rihm dovesse essere molto ricco, o almeno già molto influente. I critici sono giunti persino a lodare l’uso pervasivo degli intervali di tritono e di semitono (una caratteristica che quest’opera condivide con l’80% della musica del Novecento)! Il che equivale a lodare la musica di Paisiello perché utilizza accordi formati dalla sovrapposizione di terze (come tutta la musica occidentale dell’evo moderno). Ma queste sono dietrologie. L’ascolto di Jakob Lenz, uno dei primi grandi successsi della carriera del compositore, fornisce una risposta diversa. La musica di Rihm non è avanguardistica come quella della precedente generazione (Nono, Stockhausen) e non è neanche francamente tonale o consonante come quella di Reich o Glass (Einstein on the Beach (1976) risale a tre anni prima, come anche il Cantus in memoriam Benjamin Britten di Arvo Pärt). A livello teorico Rihm si è fatto conoscere per aver preso le distanze dalle avanguardie e dal post-strutturalismo in nome di una non meglio specificata “espressività” (evidentemente ignorata da altri e recuperata da lui, a suo dire). Ma, all’ascolto, la sua musica non è affatto diversa da quella dei suoi predecessori (Lachenmann, ad esempio), se non per la (occasionale) adozione di un tempo “striato” (varrebbe a dire, nella lingua improbabile dei compositori di musica “contemporanea”, “ritmi riconoscibili”) e per l’inserimento di qualche triade consonante qua e là, tanto per dimostrare la propria de-ideologizzazione. Insomma, con il suo pensiero debole e la sua finta “ribellione alla ribellione” che non destabilizza nessuno, con il suo essere “acqua senza sale, che non fa né ben né male”, Rihm, che è assai prolifico, sempre pronto a riciclare ed arrangiare precedenti lavori, e che comunque è dotato di mestiere e di un certo gusto, si è guadagnato un posto sicuro sia nei circuiti della musica contemporanea sia in quelli delle grandi orchestre e dei teatri, che hanno ormai accettato la loro completa irrilevanza nella società e pensano più che altro a non scontentare troppo nessuno.
C’è sicuramente dell’ironia nel fatto che il primo soggetto operistico di un tale fortunato interprete della pacifica accettazione della perdita di senso del linguaggio sia stato fornito dalla novella (incompiuta per intrinseca necessità) Lenz (1835) di Georg Büchner (1813-1837), che trae la sua ispirazione dalla vita di Jakob Michael Reinhold Lenz (1751-1792), scrittore “Sturm und Drang” noto per i suoi drammi eccentrici e violenti Der Hofmeister e Die Soldaten e per la sua “amicizia” con Goethe, che nel 1777 divenne vittima di un grave disturbo mentale che qualche medico di oggi ha definito “schizofrenia paranoide”. Nel capolavoro di Büchner, che rivaleggia con la Psicosi delle 4:48 di Sarah Kane per il posto di libro più disperato della storia, Lenz, aiutato senza successo dall’amico Kaufmann e dal pastore Oberlin, lotta con tutte le sue forze contro questa perdita di senso: “Quanto più vuoto, quanto più freddo, quanto più moribondo si sentiva dentro, tanto più anelava a ridestare in sé una fiamma, gli tornava il ricordo dei tempi in cui tutto si agitava in lui, in cui ansimava per ogni sensazione: e ora, tutto morto! Disperava di sé stesso, si buttava a terra, si tormentava le mani, rimestava tutto quanto dentro di sé; ma morto, morto! Poi implorava Dio che gli desse un segno, si frugava dentro, digiunava, si stendeva sognante a terra.”
Nessun dramma invece nella partitura di Rihm, che sguazza felicemente in una anodina e indifferenziata ripetizione di cliché della “nuova musica”, epurati però dagli eccessi, e fa ampio ricorso allo Sprechgesang indifferentemente per tutti e tre i personaggi.
Un ulteriore livello di ironia sta nel fatto che questo soggetto mette inevitabilmente l’opera in competizione con Wozzeck (1922) di Alban Berg, dal Woyzeck di Büchner (ancora ispirato a Lenz), e Die Soldaten (1965) di Bernd Alois Zimmermann, dal dramma omonimo di Lenz. Berg e Zimmermann hanno lottato, in maniera molto personale, con l’apparentemente coercitiva e “inespressiva” tecnica dodecafonica ed hanno creato due fra i momenti più forti e commoventi del teatro d’opera del Novecento, mentre Rihm, nella libertà tecnica della sua sbandierata “espressività”, risulta inerte ed accademico.
Tanta insipida piattezza della musica, che non riesce neanche a sembrare ossessiva, avrebbe potuto essere comunque redenta da una regia con dell’immaginazione. Purtroppo Henning Brockhaus ha scelto la strada facile: l’ambientazione all’aperto di diverse scene (che sarebbe così fondamentale per lo straniato rapporto con il paesaggio “anti-goethiano” che prova Lenz) è stata abolita. Tutto si svolge in uno squallido ospedale anni ‘70, rappresentato con realistico descrittivismo. Kaufmann e Oberlin sono dottori, uno decisamente sadico e l’altro un po’ stupido. La bambina morta che Lenz, in un delirio religioso, tenta di fare risorgere e che chiama la sua fidanzata è in realtà una bambola. Le voci che sente (interpretate da un sestetto di cantanti) provengono, apparentemente, da altri internati. Quanta fantasia.
È sempre difficile per un critico dare un giudizio sull’esecuzione musicale di un’opera contemporanea, non disponendo della partitura. Si segnalerà però la prestazione professionale del sestetto di “voci”, capeggiati dalla bella voce di lirico-leggero di Anna Maria Sarra, e la bella performance del baritono Tomas Möwes (Lenz) e del tenore Daniel Kirch (Kaufmann), che oltre ad un grande impegno attoriale (soprattutto il primo), hanno esibito anche due voci molto interessanti. Tanti applausi per tutti da parte di un teatro mezzo pieno. Bisogna essere ottimisti. P.V.Montanari
Foto Roco Casaluci – Teatro Comunale di Bologna