Trieste, Teatro Verdi, Stagione Lirica 2012
“LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Tragedia lirica in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano, dalla tragedia La bataille de Toulouse di Joseph Méry
Musica di Giuseppe Verdi
Federico Barbarossa ENRICO GIUSEPPE IORI
Il primo console di Milano FRANCESCO MUSINU
Il secondo console di Milano FEDERICO BENETTI
Il podestà di Como GABRIELE SAGONA
Rolando GIORGIO CAODURO
Lida SARA GALLI
Arrigo RENZO ZULIAN
Marcovaldo GIOVANNI GUAGLIARDO
Imelda SHARON PIERFEDERICI
Un araldo ALESSANDRO DE ANGELIS
Uno scudiero di Arrigo NICOLA PASCOLI
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Boris Brott
Maestro del coro Paolo Vero
Regia Ruggero Cappuccio
Scene e costumi Carlo Savi con interventi di Mimmo Paladino e Matthew Spender
Luci Nino Napoletano
Allestimento in coproduzione tra Gran Teatre de Liceu di Barcellona, Teatro dell’Opera di Roma e Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 3 marzo 2012
Stando all’ultima replica di questa Battaglia di Legnano è mio dovere avvertire le autorità che Trieste si trova in una vera e propria emergenza sanitaria. Fin dalla prima nota della bella sinfonia uscita dal golfo mistico, platea e palchi hanno risposto con una sinfonia parallela di tosse, ora grassa, ora secca, ora nervosa, talora in solo, altre volte in duetto, terzetto, concertato, in hoquetus, canone e fuga, proseguita con ammirevole coerenza fino alla fine dell’opera. Più che alla Milano del 1176 veniva da pensare a quella manzoniana del 1630… Anche se di rado assume forme così virulente, quello della tosse è un problema cronico per tutto il teatro e tutta la musica che non utilizzano amplificazione. Che la causa sia da rintracciare nella malattia o piuttosto nella noia, mi permetto di segnalare ai teatri nostrani che all’Opera di Sydney (e anche altrove, immagino) distribuiscono gratuitamente caramelle a base di burro e di menta (ottime al gusto, quantunque, suppongo, non esattamente dietetiche), avvolte in carta silenziosissima, che rendono assolutamente impossibile tossire anche al più malintenzionato. Se i teatri hanno intenzione di produrre concerti in costume come questa Battaglia di Legnano coprodotta da Roma, Barcellona e Trieste, anziché vero teatro musicale, potrebbero utilmente risparmiare i soldi destinati all’incompetente “regista” di turno ed investire invece in forniture di questi preziosi balsami per le gole e soprattutto per le orecchie degli spettatori. E lascerebbero così scenografi e costumisti liberi di ideare scene e costumi con una loro coerenza e dignità invece che, ad esempio, un indigeribile papocchio di varie epoche, quale quello che si è visto in questa occasione, imposto da chissà quale imperscrutabile idea “registica”.
La battaglia di Legnano (1849) non è affatto la meno interessante delle opere del “primo” Verdi. Le ragioni del suo oblio vanno senz’altro ricercate nel brutto libretto del sovrastimato Salvadore Cammarano, che qui si è riciclato stancamente (ad esempio nel primo cantabile del tenore, copiato quasi parola per parola da quello del baritono nel Poliuto) e che da un soggetto è potenzialmente interessante (due amici uniti dalla fede patriottica ma divisi dall’amore per la stessa donna) non è riuscito a tirar fuori che personaggi tagliati con l’accetta e privi di vita. Da un punto vista musicale, se la scrittura vocale ha già esigenze mostruosamente “verdiane”, le strutture sono ancora profondamente legate al modello donizettiano e poco fa presagire lo straordinario exploit del Rigoletto che sarebbe avvenuto di lì a due anni. Ma probabilmente la scarsa fortuna della Battaglia di Legnano è da ricercare nel fatto che, pur abbondando di cori risorgimentali, difetta di un “Va’, pensiero” o un “O Signore dal tetto natio”. Una volta ogni dieci anni la si potrebbe ascoltare con piacere.
Purtroppo “piacere” non è la parola più indicata per raccontare la recita cui ho assistito, gravemente inficiata dall’assenza di una protagonista femminile all’altezza del ruolo. Volentieri stenderei un velo pietoso sull’interprete di Lida, anche perché mi rendo perfettamente conto che quanto sto per scrivere può facilmente parere un’esagerazione ed è difficilmente credibile. Ed è infatti l’incredulità il sentimento dominante che, superato il ridicolo e il fastidio, suscita il soprano (?) Sara Galli, almeno in questa performance: incredulità che una laringe umana possa emettere stridori tanto sgradevoli, incredulità che la voce di una donna ancora giovane possa ballare come quella di un’ottantenne e che nel contempo possa essere soffiata e schiacciata (tre difetti che si crederebbe difficilmente conciliabili tra loro), incredulità che un teatro importante come il Verdi di Trieste possa scritturare in un ruolo da protagonista una persona che non potrebbe mai venire assunta in nessun coro. Non è noto, per fortuna, se da parte della direzione artistica si sia trattato di corruzione del gusto o di corruzione morale. In questo caso, la seconda possibilità è di gran lunga più perdonabile della prima. Come che sia, è stato un grave insulto al pubblico, a Verdi, ai tanti soprani che in questi tempi di crisi sono costretti a stare a casa a fare la calza anziché cantare e un insulto agli altri componenti del cast, che, per parte loro, hanno fatto un ottimo lavoro. Nella sua scena breve ma intensa il basso Enrico Giuseppe Iori (che l’anno prossimo debutterà al Met come Sparafucile) è stato un Federico Barbarossa imponente. Con la sua voce franca e squillante, il tenore Renzo Zulian (Arrigo) è sempre una sicurezza. Peccato per la mancanza di grandi ambizioni musicali. Talvolta, come nella scena finale della morte, si pensa di trovarsi di fronte ad un ottimo tenore che meriterebbe di calcare scene ben più importanti. Poi arriva sempre il portamento maldestro, l’accento contadino a riportarci al piccolo mondo antico dei circoli lirici di provincia. Motivo principale di interesse di questo allestimento (oltre alla Theodossiou nell’altro cast) era il debutto verdiano in Italia (dopo un Don Carlo a Hong Kong) del baritono Giorgio Caoduro (Rolando), finora noto al pubblico internazionale come Figaro rossiniano ed Enrico donizettiano, che nel convenzionale ma sublime cantabile “Se al nuovo dì pugnando” e nella veemente cabaletta “Ah! Scellerate alme d’inferno” ha strappato gli applausi più lunghi della serata, dimostrando di avere tutte le carte in regole anche in questo repertorio: voce scura e sonora, acuti sicuri, dizione perfetta, un legato di grande nobiltà e un vero “chiaroscuro”, cioè la capacità di trascolorare dal forte al piano e viceversa. Eccellente il coro preparato da Paolo Vero. Per questa replica la direzione artistica del Verdi ha avuto la brillante intuizione (da me ed altri invocata più volte) di foderare la buca dell’orchestra di velluto, così migliorando notevolmente il rapporto acustico con il palcoscenico (anche se quando una tromba moderna non trattenuta dal direttore decide di sommergere tutte le voci, non c’è niente da fare). Si spera che altri teatri seguano l’esempio. P.V.Montanari
Foto Fabio Parenzan – Trieste