Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2011/2012
“LA BOHÈME”
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger
Musica di Giacomo Puccini
Mimì MARIA AGRESTA
Rodolfo MASSIMILIANO PISAPIA
Musetta NORAH AMSELLEM
Marcello CLAUDIO SGURA
Schaunard FABIO PREVIATI
Colline NICOLA ULIVIERI
Benoît e Alcindoro MATTEO PEIRONE
Parpignol DARIO PROLA
Sergente dei doganieri MAURO BARRA
Un doganiere MARCO TOGNOZZI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”
Direttore Massimo Zanetti
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Giuseppe Patroni Griffi
ripresa da Vittorio Borrelli
Scene e costumi Aldo Terlizzi Patroni Griffi
Luci Andrea Anfossi
Allestimento Teatro Regio
Torino, 8 marzo 2012
Le recite del Barbiere di Siviglia e di Madama Butterfly che hanno avuto luogo nelle scorse settimane hanno testimoniato la riuscita dell’iniziativa del Regio di perseguire una “via italiana al repertorio”. Una regia tradizionale ed una d’avanguardia, interpreti rodati nei rispettivi ruoli e capaci, specie per ciò che riguarda Il Barbiere, di trasmettere agli spettatori il piacere dell’ascolto e la ricchezza delle emozioni. Con La Bohème si è invece avuta l’impressione che l’esecuzione tendesse a scivolare nella routine. Per carità, non è che sia mancato il successo di pubblico o che non giungessero emozioni agli spettatori – e come si fa a non emozionarsi ascoltando un’opera come questa, nella quale Puccini sa far vivere l’eterno presente della vita, dalle difficoltà economiche dei giovani che aspirano a vivere d’arte (sicuramente più sentite oggi che qualche decennio fa), all’esperienza della malattia e della morte rese sublimi dalla musica pur nel loro presentarsi quotidiano quanto più non si potrebbe (e lo sa bene chiunque si sia trovato in un corridoio d’ospedale a parlare dell’ineluttabilità della sorte del proprio caro ricoverato nella stanza accanto) – ma si è trattato di emozioni dovute alla partitura di Puccini più che all’interpretazione proposta in palcoscenico.
L’allestimento, quello, ormai storico, nato nel 1996 in occasione del centenario dell’opera, con la regia di Giuseppe Patroni Griffi (ora ripresa da Vittorio Borrelli) e le scene e i costumi di Aldo Terlizzi, è sicuramente la scelta migliore per proporre uno spettacolo di repertorio al Regio: un allestimento che riesce, come l’opera, ad essere al contempo classico e moderno, fedele alle indicazioni del libretto ma non sovraccarico di dettagli inutili; è ambientato tra gli scapigliati dell’epoca di Puccini, generazione alla quale si fa in fondo riferimento sotto il velo della Parigi 1830, e la scena del III quadro, sotto la nevicata, è sempre capace di stupire gli spettatori.
Le debolezze della recita cui si è assistito risiedono dunque eminentemente nell’esecuzione musicale: una eccessiva predominanza dell’orchestra, diretta da Massimo Zanetti, specie nei primi due quadri non ha avvantaggiato i solisti, che già di per sé si trovavano ad affrontare ruoli non sempre congeniali alle loro caratteristiche vocali. La Mimì del soprano Maria Agresta sfoggia sicuramente uno strumento prodigioso, una voce rotonda e morbida che si sfoga in quei passi – come le frasi dolcissime che emergono nel tumulto del quartiere latino, o gli ultimi versi di «donde lieta» – nei quali ha la possibilità di mettere meglio a frutto la sua fine tecnica belcantistica fatta di filati e messe di voce; per questo ci si sente di consigliarle di approfondire quel repertorio primo ottocentesco nel quale ha già dato assai buone prove (dai Vespri torinesi dell’anno scorso alla Gemma di Vergy bergamasca)prima di dedicarsi a ruoli che non la valorizzano appieno. Con tutto ciò, la Agresta ha dimostrato buon carisma teatrale nel tocco elegantemente civettuolo che ha saputo dare Mimì nelle prime scene. Chi è invece parsa decisamente inadeguata alla parte che le toccava sostenere è stata il soprano Norah Amsellem, alla quale, nella scena del caffè Momus, è mancata completamente quell’incisività che il carattere tagliente di Musetta deve avere, incisività penalizzata da una voce che svaniva nel cambio di registro generando note gravi prive di sostanza sonora; si è riscattata nell’ultimo quadro, dove ha saputo incarnare la recondita umanità del suo personaggio. Scorrendo il calendario degli impegni del tenore Massimiliano Pisapia si ha idea della versatilità del suo repertorio; l’impressione è però che questa versatilità vada un po’ a scapito dell’approfondimento psicologico dei singoli ruoli che affronta, per cui, pur nella discreta qualità media, è difficile riscontrare nelle sue interpretazioni un’eccellenza. Il suo Rodolfo, specie nel I quadro, è parso decisamente impersonale, aggravato da una voce che faticava a passare l’orchestra e a correre nella sala; più convincenti le note dolenti degli ultimi atti. Nella normalità gli altri interpreti, con la piacevole eccezione del basso Nicola Ulivieri (Colline), che ha mostrato grande classe nella mesta “Vecchia zimarra”, frutto di quell’abilità nel fraseggio che già si era ammirata quando ha impersonato Don Basilio nel Barbiere. Foto Ramelli & Giannese – Fondazione Teatro Regio di Torino