Direttore della californiana Santa Barbara Symphony Orchestra, già assistente di Zubin Mehta che lo definì d’“immensa musicalità e calorosa personalità”, con un’ intensa attività in ambito sinfonico, nell’opera e nel balletto, sarà all’Opéra de Lausanne, con il Falstaff verdiano, in scena dal 23 al 28 marzo 2012. Nel suo attivo spiccano le collaborazioni con eminenti solisti quali Itzhak Perlman e Lang Lang e importanti compagini del calibro della Israel Philarmonic Orchestra, le Orchestre del Maggio Musicale Fiorentino, dell’Opera di Roma, del Carlo Felice di Genova, l’Orchestre National du Théâtre du Capitole de Tolouse, la Tokyo Philarmonic Orchestra e l’Orquestra Filarmónica de Gran Canaria.
Siamo ormai alla vigilia dell’anno verdiano 2013. La scelta di un titolo come Falstaff cosa significa per un direttore? Come si rapporta con questa partitura che fu il testamento artistico del compositore italiano più osannato al mondo?
Falstaff è un testamento sui generis, lo definirei un “nuovo testamento” rispetto alle opere di Verdi che ho affrontato in precedenza sia come assistente che come direttore. Falstaff non contiene in blocco il patrimonio musicale di Verdi come un tradizionale testamento dovrebbe fare, ma è invece un’opera totalmente innovativa sia per forma che per stile. Per un direttore è una sfida enorme confrontarsi con la saggezza musicale del grande maestro e rendere al meglio la complessità di questo dramma musicale.
Nel cast del Falstaff di Losanna troviamo nomi prestigiosi. Qual è il suo metodo di lavoro con i cantanti?
Ho veramente un ottimo cast con due baritoni eccezionali. Nelle prove cerco sempre di valorizzare le vocalità dei singoli interpreti, sincronizzandole con le mie idee musicali, nel rispetto della partitura. In Falstaff, trattandosi di una commedia, la scrittura non è sempre e solo belcantista, ci sono molte suggestioni che scaturiscono dal testo e che Verdi realizza con effetti particolari.
Con il regista Arnaud Bernard quale lavoro sta portando avanti soprattutto da punto di vista dell’introspezione psicologica dei personaggi che in questa opera sappiamo essere particolarmente fine.
E’ un piacere lavorare con un regista con una preparazione musicale come quella di Arnaud Bernard: il suo lavoro è inteso a sottolineare la parte drammatica della musica, con una precisione sugli accenti musicali che gli deriva dalla sua formazione come violinista. La sua regia è ricchissima e richiede una concentrazione particolare da parte dei cantanti sempre impegnati nella recitazione sia mentre cantano che nelle controscene.
Cosa ama particolarmente del capolavoro in questione?
La musica è splendida, ci sono delle pagine sinfoniche di rara bellezza. Questa è la terza opera di Verdi d’ispirazione shakespeariana che ho l’occasione di studiare e posso dire che in Falstaff il rapporto testo musica arriva ad essere della massima omogenieità e perfezione: ci sono tutti gli effetti della commedia realizzati in modo mirabile, le risate, la caricatura della gelosia di un marito e la tipizzazione in genere dei vari caratteri. E’ sublime come Verdi riesca ad essere innovativo in senso musicale e drammatico anche ricorrendo a forme antiche come la fuga del finale.
Portando in scena un’opera italiana in uno stato estero, sente su di sé medesimo il peso della tradizione operistica della scuola italiana?
Assolutamente! Sono molto fortunato di avere vissuto molti anni in Italia lavorando al Maggio Musicale Fiorentino dove ho visto l’opera italiana realizzata da grandi maestri, e posso far tesoro di quest’esperienza. Fra l’altro mi sono avvicinato alla cultura italiana proprio attraverso le opere di Verdi.
In Italia i teatri faticano per la sopravvivenza. Lei quale idea si è fatto di una tale situazione? E come la vive? Purtroppo i teatri italiani si sono adagiati sulla certezza e sulla comodità dei fondi pubblici purtroppo questa realtà è drasticamente cambiata e serve in breve cambiare la mentalità, cercando un tipo di gestione più manageriale accompagnata da una programmazione ed un marketing realmente efficienti in termini di cassa. Accanto a questo ha importanza vitale lo sviluppo del fundraising presso le aziende e i privati. In fin dei conti se guardiamo alla storia del teatro dall’antichità ad oggi vediamo che i finanziamenti pubblici sono soprattutto appannaggio del XX° secolo mentre ha sempre avuto peso fondamentale il mecenatismo delle élites.
Considerate le sue intense attività fuori l’Italia, quale idea si è fatto della gestione dei teatri tra i vari Paesi?
Noto che nei teatri italiani c’è una sorta di concorrenza ad accaparrassi il grande nome da mettere il cartellone. Nei teatri europei in genere si producono più titoli e in genere la direzione delle repliche viene affidata agli assistenti, garantendo al contempo un risparmio al teatro e la possibilità per dei giovani di fare esperienza.
Negli Stati Uniti d’America, dove lei attualmente dirige la Santa Barbara Symphony, come vengono finanziate le attività di una simile istituzione culturale?
In America anche le maggiori istituzioni culturali (come anche molti servizi pubblici), sopravvivono grazie ai fondi privati, costituiti da donazioni, versamenti da parte di fondazioni o contributi in servizi offerti all’organizzazione. Si crea una reale affezione che va oltre al semplice contributo economico: chi investe nei teatri si sente coinvolto in prima persona, ha tutto l’interesse che l’istituzione culturale non fallisca e s’impegna a coinvolgere altre persone che possano ugualmente partecipare. Un profilo molto importante è la possibilità di detrarre le donazioni alle organizzazioni non-profit dalla dichiarazione dei redditi.
I giovani affollano le platee? Quali sono le iniziative della vostra orchestra per attirarli alla musica sinfonica?
Come ovunque nel mondo la maggior parte del pubblico ha i capelli bianchi, ma in U.S.A. si fanno tante iniziative per educare alla musica e coinvolgere i più giovani a partire dagli allievi delle scuole elementari, tramite matinée con programmi a tema che diano loro la possibilità di conoscere e riconoscere le peculiarità degli strumenti e delle varie sezioni dell’orchestra. Queste iniziative riscuotono enorme successo ed è un peccato che non se ne facciano di più anche in Italia, dove per lo più si offrono alle scuole inviti alle prove aperte dei concerti sinfonici o biglietti ridotti per le rappresentazioni, senza che ci sia dietro una reale preparazione all’evento che consenta di fruirne a pieno. In questo senso ho apprezzato molto la trasmissione di Rai Tre “Il Gran Concerto” con L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai che apre il magico mondo della musica ai più piccoli con un linguaggio alla loro portata.
Tra i suoi impegni si annoverano un Viaggio a Reims diretto al Giardino di Boboli di Firenze nel luglio 2004 e un Romeo e Giulietta di Prokofev alle Terme di Caracalla di Roma; Toscanini sosteneva che “all’aperto si gioca a bocce”. Lei, invece, come vive l’esperienza direttoriale in un luogo aperto? Trova delle difficoltà d’intesa con i professori dell’orchestra? Trova che la fruizione della musica per il pubblico sia compromessa?
Trovo positiva l’esperienza all’aperto per una questione divulgativa: è più facile coinvolgere un pubblico di non esperti in una serata d’estate in un anfiteatro come può essere l’Arena di Verona, il Gran Teatro Puccini o le terme di Caracalla, piuttosto che nell’atmosfera ieratica e formale del Teatro d’Opera. Sicuramente per i professori d’orchestra non è piacevole suonare sotto l’assillo dalle zanzare o mentre gli spartiti svolazzano nel vento con i loro preziosi strumenti minacciati dall’umidità. E’ chiaro che sul profilo acustico orchestra e voci sono molto penalizzate, ma credo che il messaggio di fondo di compositore e librettista riesca ad arrivare comunque.
Dirigere su un palco per un concerto e dirigere nel golfo mistico per un balletto o un’opera non è la stessa cosa. Lei quali differenze scorge in questi due tipi di esperienza lavorativa?
Nel repertorio sinfonico non ci sono condizionamenti esterni e il direttore può liberamente esprimere la propria visione musicale. Nell’Opera la maggiore sfida tecnica è data dalle ampie distanze che separano fossa e palcoscenico e dalla necessità di anticipare i tempi degli interpreti e del coro. Serve un tecnica molto sviluppata per tenere insieme la compagine. Nel ballo i tempi sono dettati dalle esigenze coreografiche e sono per lo più molto più lenti dei tempi normalmente scelti dai direttori che eseguono le suite dai balletti (pensiamo a Tchaikovsky o Prokofiev o Stravinsky) in sede di concerto. Inoltre molti accenti e cadenze devono trovarsi esattamente sull’ultimo passo di un manège o sull’atterraggio di un ejambé, in una sincronizzazione perfetta con i danzatori che comporta l’aggiunta di molte corone e rallentando.