Venezia, Teatro La Fenice, stagione sinfonica 2011/ 2012
Concerto sul nome di Bach
Orchestra del Teatro La Fenice.
Direttore Mario Venzago
Continuo: Marco Giani fagotto, Francesco Ferrarini violoncello, Stefano Pratissoli contrabbasso, Carlo Rebeschini clavicembalo.
Johann Sebastian Bach: Suite per orchestra n. 1 in do maggiore BWV 1066 – Ouverture – Courante – Gavotte I e II – Forlane – Menuet I e II – Bourrée I e II – Passepied I e II.
Preludio e fuga per organo in mi bemolle maggiore BWV 552, trascrizione per orchestra di Arnold Schoenberg.
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 Eroica – Allegro con brio – Marcia funebre: Adagio assai – Scherzo: Allegro vivace – Finale: Allegro molto.
Venezia, 24 marzo 2012
Se dovessimo ricercare nel programma di questa sera un tema unificante, lo troveremmo nel nome di Bach ricordando, in particolare, le parole di Schönberg, contenute nei Problemi di armonia (1927), laddove il compositore austriaco afferma che uno dei fondamentali insegnamenti ricevuti dal Maestro di Eisenach era rappresentato – oltre alla tensione cromatica e al carattere atematico, che si evincono da certe sue frasi musicali – dall’«arte di generare tutto da un solo elemento». Il che implica, per estensione, anche il concetto di “melodia di timbri” (Klangfarbenmelodie), con cui si chiude il suo famoso Trattato di armonia, aprendo nuove prospettive alla serialità. Sublime realizzazione di questo concetto è, senza dubbio, la trascrizione della Fuga (Ricercata) a sei voci dall’Offerta musicale ad opera di Anton Webern.
Tra le composizioni eseguite nella serata – aperta dalla Suite per orchestra n. 1 in do maggiore di Bach – vi era proprio una trascrizione bachiana di Arnold Schoenberg, quella per orchestra del Preludio e fuga per organo in mi bemolle maggiore BWV 552. Ebbene, dall’inventore della musica dodecafonica ci si aspetterebbe un’orchestrazione minimalista (la stessa che caratterizza il citato rifacimento operato dal suo allievo), qui invece Schönberg utilizza un’orchestra lussureggiante, di densità sonora postwagneriana, ottenendo risultati contrastanti. La partitura rivela una padronanza davvero impressionante nell’uso dei colori strumentali, nondimeno la maestà e l’assolutezza, intrinseche nella musica di Bach, richiederebbero – per le nostre orecchie – più parsimonia di mezzi e meno orpelli. La fuga, in particolare, che per sua stessa natura dovrebbe scorrere con matematica chiarezza, è come frantumata dal continuo succedersi di diversi gruppi strumentali spesso imponenti. Resta il fatto, però, che l’emancipazione del parametro timbrico e il cosiddetto “stile spezzato” trovano fin da questo lavoro una loro importante applicazione. Ma già nell’“Eroica”, viene esaltata – a detta dei critici – l’individualità timbrica di ciascuno strumento con effetti che, all’epoca in cui vide la luce, parvero rivoluzionari, così come compare, per la prima volta in Beethoven, il ricordato “stile spezzato”, in base al quale una determinata melodia si dipana passando da uno strumento all’altro. Inoltre la classica dialettica che vede contrapposti, all’interno della “forma sonata”, due temi principali che si confrontano in modo piuttosto distinto, viene meno, nel senso che generalmente le varie idee tematiche non sono fra loro contrapposte, ma germinano continuamente l’una dall’altra. La stessa idea principale – l’arpeggio dei violoncelli che si presenta all’inizio – difficilmente può essere considerata un vero primo tema, ma piuttosto una cellula primordiale, da cui scaturiranno l’uno dopo l’altro vari sviluppi. È un’ulteriore conferma della validità dell’insegnamento bachiano, che viene fatto proprio da un genio, aperto al nuovo nell’arte come nella vita.
La cifra distintiva della soirée sotto il profilo esecutivo ci è sembrata essere l’oggettività, talora portata fino all’eccesso. Così nella Suite di Bach la bacchetta dello zurighese Mario Venzago faceva prevalere un suono piuttosto secco e un’espressività alquanto contenuta, limitata alla marcatura degli sforzati e ad altre scarne sottolineature dinamiche e agogiche; il che finiva per mettere in evidenza il mero carattere d’intrattenimento di questo lavoro, che – come tanti altri dello stesso autore – rivela in altre interpretazioni più analitiche e meditate, una valenza estetica che va al di là delle geometrie strutturali e del gioco contrappuntistico, pur estremamente raffinati e d’effetto. Quanto alla ridondante trascrizione schönberghiana, nonostante l’ineccepibile prova da parte dell’orchestra del teatro, sotto la guida sicura del direttore elvetico, l’esasperata ipertrofia sonora, l’orpellosa ossessione coloristica portavano francamente verso il kitsch, per usare una categoria certo invisa all’austero fondatore della seconda scuola musicale di Vienna. Eppure quello che si sentiva – peraltro accolto entusiasticamenete dal pubblico come ha dimostrato l’ovazione finale – non era molto dissimile da certe colonne sonore holliwoodiane alla Max Steiner (che, vedi caso, fu allievo di Brahms e Mahler).
Ma veniamo alla seconda parte del concerto: l’“Eroica”. Generalmente positiva, anche in questo caso, la performance dell’orchestra, sebbene dopo un attacco (le due celebri “strappate” iniziali) non esaltante per coesione. Venzago è riuscito a rendere l’impeto di queste pagine cruciali per la storia della musica e non solo, ma la sua lettura, troppo spesso uniformemente oggettiva, non faceva risaltare adeguatamente il carattere epico, eroico appunto, ma talora lirico della partitura, rivelatasi comunque sconvolgente anche per le ardite dissonanze di certi indimenticabili passaggi. Così nel secondo movimento l’episodio centrale (Trio) in do maggiore non aveva il giusto rilievo rasserenante all’interno del clima luttuoso della marcia funebre, un po’ troppo veloce. Ben contrastato, invece, lo scherzo, reso con leggerezza e brio, ma anche con ostentazione di forza vitale; in particolare bellissimo il Trio con la fanfara dei corni ben intonata ed affiatata. Poco nitidi certi rapidi passaggi all’interno delle variazioni che costituiscono il Finale, reso con grande impeto, ma ancora una volta senza la giusta morbidezza negli episodi più lirici. Dopo le ultime battute, successo, applausi, accenno di ovazione.