Parma, Teatro Regio, Stagione Lirica 2012
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il re d’Egitto CARLO MALINVERNO
Amneris MARIANA PENTCHEVA
Aida TIZIANA CARUSO
Radamès HECTOR SANDOVAL
Ramfis GEORGE ANDGULADZE
Amonasro ALBERTO GAZALE
Una sacerdotessa YU GUANQUN
Un messaggero COSIMO VASSALLO
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Antonino Fogliani
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Joseph Franconi Lee
Scene e costumi Mauro Carosi
Allestimento del Teatro Regio di Parma
Coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatro Comunale di Modena
Parma, 8 febbraio 2012
Il clima che accoglie chi arriva la sera a Parma in questi giorni è quello che segue una grande nevicata: gelo pungente, il freddo che costringe il passante a camminare lentamente e con occhi puntati solo alle strade brinate prestando attenzione a non scivolare. Medesima sensazione “raggelante” all’interno del Teatro Regio di Parma in seguito alla visione di Aida, spettacolo inaugurale di questa ridottissima Stagione Lirica, acceso solo a sprazzi dai dissensi seguìti allo spettacolo.
Aida, dicevamo: opera fortemente voluta dal Teatro Regio fin dalla stagione trascorsa e finalmente messa in scena. Andiamo a vedere come. Per quest’occasione, la scelta è caduta su un allestimento del Teatro Regio, quello del Festival Verdi 2005, già noto ai parmigiani come “l’Aida blu”. L’abbiamo già detto e sempre lo sosterremo: in periodi di tagli e ristrettezze ben vengano queste riprese benché supportate da una regia in grado di giustificarle. Non è questo il caso. Joseph Franconi Lee agisce sostanzialmente in due direzioni: o fa muovere gli artisti per gesti quasi stereotipati, di una solennità stucchevole, come nel caso di Ramfis perennemente a braccia spalancate, o, per la maggior parte dei casi, l’inventiva viene lasciata ai solisti. Poco altro. Per quanto riguarda la gestione delle masse, risulta senz’altro efficace la scelta di giocare la scena del trionfo snodata su due piani narrativi (l’ingresso dapprima delle truppe sul fondale per poi stagliarsi solenni sulla scena) ma altre scene sembrano più pasticciate e frettolose: così le schiave che dovrebbero assistere Amneris alla propria toletta, altro non sono che popolane che ricompariranno poco dopo durante il trionfo… Forse troppo chiedere un costume diverso per le schiave di Amneris? La scena ideata da Mauro Carosi è solenne, di bell’impatto giocata sui toni del blu e dell’oro. L’idea di base a noi è piaciuta: in fondo, il blu, esaltato dalle luci di Guido Levi, ben si adatta al dramma della schiava etiope in terra straniera, ne esalta il lato “lunare” e, al contempo, risulta un omaggio ad uno dei colori emblematici della cultura egizia. Certo, se le scene e le quinte mobili fossero state dipinte in toni meno patinati ne avrebbero senz’altro guadagnato in solennità e verosimiglianza. Il blu è anche il colore che nel trucco connota gli Egizi, il rosso e le tonalità terrigne gli Etiopi. Poco da dire sui costumi, sempre a firma Carosi, spesso stilisticamente confusi e prevedibili; degno di menzione solo quello di Aida, giocato su una piacevole tonalità granata.
Alla serata cui abbiamo assistito, Aida viene interpretata da Tiziana Caruso. Lungi dall’essere un’Aida perfetta, quest’artista ci ha però colpito favorevolmente, risultando senz’altro la migliore del cast. Di bella presenza e di buone capacità attoriali, sa rendere con ricercate sfumature il dramma della celebre schiava verdiana. Vocalmente, colpisce la zona centrale che corre molto bene: alcuni acuti risultano un po’ spinti (forse sotto una bacchetta più rispettosa delle esigenze del canto i risultati sarebbero stati diversi…) mentre maggiormente dovrebbe essere curato il legato, in più punti manchevole soprattutto nei Cieli azzurri. Una cantante che deve maturare ma che ci auguriamo di risentire in altro contesto. Alberto Gazale sbalza con accento vario Amonasro padre d’Aida, mescolando al contempo l’autorevolezza e l’aspetto barbarico del sovrano etiope: meno convincente la prova strettamente musicale, a causa della voce meno estesa e malleabile di un tempo.
Ma traferiamoci a Menfi dove, nonostante il blu imperante di scene e trucco, ne abbiamo sentite un po’ “di tutti i colori”. A Mariana Pentcheva va senz’altro concessa la lunga frequentazione e quindi una certa famigliarità col personaggio di Amneris: nelle intenzioni, saprebbe quindi essere voluttuosa e innamorata, insinuante come l’aspide ma furibonda e disposta a tutto per il proprio amore. Sul piano fattivo, tutto ciò non trova attuazione. La zona centrale è fortemente impoverita, sicché del languore di Vieni, amor mio non percepiamo assolutamente nulla, se non vistosi cali d’intonazione e difficoltà nella tenuta. La zona acuta è molto accorciata, costantemente spinta: meglio soprassedere sulla grande scena all’atto quarto, accolta da una sola contestazione proveniente dal loggione, seguita da un abbozzo di applauso di una manciata di secondi. Hector Sandoval è un Radames esangue, con voce forse più adatta a certo repertorio settecentesco, dal fraseggio sommario e piagnucoloso cui ben si sposano il più totale spaesamento in scena e il muoversi enfatico e grossolano. Parimenti poco incisivo il Ramfis di George Andguladze dotato di voce secca e alla costante ricerca di sonorità ingrossate. Opaco e vociante il Re d’Egitto di Carlo Malinverno, ottima la Sacerdotessa di Yu Guanqun, caricaturale il Messaggero di Cosimo Vassallo. Confusa e confusionaria la concertazione di Antonino Fogliani, incapace di rendere una qualsivoglia idea di atmosfera e fraseggio, “sostenuta” pressoché solo da tempi dilatati e sonorità chiassose. Logico non attendersi prove eccelse dall’Orchestra del Teatro Regio, organico che in passato ha dato ben altra mostra di sé sotto guide più esperte; persino lo stesso Coro appare quasi spaesato. Alle singole uscite, applauditi calorosamente Caruso e Gazale, sbuacchiata Pentcheva, contestato Fogliani; applausi di cortesia per gli altri e rapido “fuggi fuggi” generale. È tempo di crisi, lo sappiamo: e, a maggior ragione, è tempo di rendersi conto di ciò che si possiede, prenderne atto e valorizzarlo ai massimi livelli. E questo, a nostro avviso, non è il modo.
Foto Roberto Ricci, Teatro Regio di Parma