Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2011/2012
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal dramma omonimo di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca SVETLA VASSILEVA / MARIA JOSÉ SIRI
Mario Cavaradossi MARCELO ÁLVAREZ / LORENZO DE CARO
Scarpia LADO ATANELI / SILVIO ZANON
Angelotti FRANCESCO PALMIERI
Il sagrestano MATTEO PEIRONE
Spoletta LUCA CASALIN
Sciarrone FEDERICO LONGHI
Un carceriere MARCO SPORTELLI / RICCARDO MATTIOTTO
Un pastorello ESTHER ZAGLIA / TOMMASO PARONUZZI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Jean-Louis Grinda
Scene Isabelle Partiot-Pieri
Costumi Christian Gasc
Luci Roberto Venturi
Torino, 18 e 19 gennaio 2012
Prima che l’orchestra attacchi la musica di Puccini, vengono proiettati su un siparietto alcuni fotogrammi che raffigurano il suicidio finale di Tosca, che spicca il salto da Castel Sant’Angelo. Sulle prime note del II atto, sullo stesso sipario viene fatta percepire l’immagine del mantello della diva che volteggia durante la caduta. Infine, dopo il celebre «O Scarpia, avanti a Dio!» il siparietto viene rialzato, e torna l’immagine del salto seguita dal rovinoso avvicinarsi del pavé su cui la protagonista andrà a sfracellarsi (ma la proiezione viene prevedibilmente interrotta dal buio un istante prima dell’impatto). Insomma, la lettura proposta dal regista Jean-Louis Grinda prevede che Tosca riviva, negli attimi della caduta, tutti i dettagli di quella terribile giornata, compresi quelli a cui non ha potuto assistere. Lo stratagemma del flashback potrà (forse) essere nuovo per Tosca, ma non è certamente un’invenzione originale per le regie teatrali né per quelle operistiche, e nulla aggiunge alla drammaturgia pucciniana; per fortuna, nulla ad essa toglie. Per il resto, la regia è stata fedele, magari non nei dettagli (le scene miravano all’evocazione più che alla descrizione degli ambienti) ma nella sostanza sì; e questo è essenziale per un’opera che può essere ambientata in un solo giorno della storia.
Dispiace un po’, per ciò che riguarda i dettagli, che nel postludio del II atto siano stati eliminati i gesti di pietà cristiana che Tosca compie nei confronti del cadavere di Scarpia, gesti che hanno un loro significato nel dipingere la complessità interiore del personaggio della diva. E dispiace altresì che, chiuso il sipario sul II atto, non sia stato effettuato l’intervallo. Su questo è forse necessaria una precisazione ai lettori, dal momento che spesso mi trovo a lamentarmi per la soppressione degli intervalli e potrei essere preso per originale: ho sempre ritenuto che, se un compositore ha previsto una determinata suddivisione in atti, lo abbia fatto per un motivo preciso, e che l’arbitrario accorpamento di atti distinti possa danneggiare la struttura drammaturgica dell’opera. Nel caso specifico della Tosca, è pur vero che il III atto da un punto di vista temporale segue immediatamente il secondo (e credo che a ciò si debba la decisione di creare un’unica unità drammaturgica in questa produzione), ma musicalmente costituisce un quadro a sé stante, individuato da quella splendida descrizione ambientale dell’alba romana che interrompe il flusso della vicenda per proiettare in un ambiente ed in una situazione nuova. Se poi dietro alla soppressione dell’intervallo non stanno ragioni drammaturgiche ma la semplice volontà di abbreviare la serata, sarebbe tempo di smettere di imitare il lato peggiore delle prassi esecutive straniere (prestando magari un po’ più di attenzione al loro lato virtuoso) e di convincere il pubblico che nelle serate passate all’opera si può lasciare per qualche ora fuori dalla porta la fretta che caratterizza la vita contemporanea.
La direzione di Gianandrea Noseda ha avuto come suoi nodi focali la valorizzazione della componente sinfonica e della modernità di Tosca. Noseda è stato infatti attento a mettere in luce una serie di elementi, in particolare dell’orchestrazione, che spesso tendono ad essere disciolti nel flusso del lirismo pucciniano, ed a sfuggire all’attenzione del pubblico. In questo caso, invece, un lavoro di scavo minuzioso ha portato all’orecchio importanti asperità ed armonie inconsuete, che rivelano come quest’opera non sia una parentesi classicistica nella carriera del compositore, ma una tappa del suo evolversi alla ricerca di nuovi linguaggi musicali. E va dato particolare merito a Noseda per essere riuscito a portare a termine questa lettura senza sacrificare (tranne che in un paio di momenti, in cui l’orchestra avrebbe dovuto essere un po’ più moderata) le voci ed il loro protagonismo.
Protagonisti della prima compagnia due solisti d’eccezione, fra i quali particolarmente atteso, per il suo ritorno a Torino, era il tenore Marcelo Álvarez. Questi, nel ruolo di Cavaradossi, ha mostrato una grande tecnica espressiva ed un’acuta intelligenza interpretativa, anche se bisogna riconoscere che la sua voce è suonata un po’ stanca, talvolta in difficoltà a fronte dei crescendo orchestrali, tal altra un po’ ingessata (e penso in particolare a «Recondita armonia») come se il tenore mettesse freno al proprio lirismo per timore di cadere in sbavature; infine, un po’ eccessiva è stata la nasalizzazione di alcune i. Ma, se questi sono stati i misurati difetti, non si possono tacere le grandi pagine regalate agli ascoltatori torinesi: ed in particolare gli ammalianti colori di «Qual occhio al mondo» e la perfetta calibratura delle emozioni che trasudavano dalla grande aria del III atto, in cui ogni parola con i suoi accenti e le sfumature era studiata e resa nel suo significato più profondo; e, nell’ultimo duetto con l’amata, «O dolci mani» ha saputo esprimere la vera trasposizione musicale delle coccole e delle carezze. Il soprano Svetla Vassileva non ha forse il temperamento che ci si aspetterebbe dal personaggio di Tosca, ma ha saputo valorizzare i contrasti interiori che vivono nell’eroina, virando dalla commossa dolcezza dei momenti in cui emergono le emozioni più riposte del suo animo – come il pianto al termine del I atto, o l’aria «Vissi d’arte» di cui è stata messa in luce l’estraneità alla natura drammatica della scena in cui è inserita, estraneità che si giustifica come “finestra” sull’interiorità di Tosca – al grido fin troppo espressionistico, quasi ferino, dei momenti di rabbia e di disperazione, fino al parlato cui è stato concesso più spazio di quello che in partitura raccomanderebbe Puccini. Inaspettatamente magistrale, specie nel I atto (un po’ più scontata, forse, nel secondo), è stata l’interpretazione che il baritono Lado Ataneli ha dato di Scarpia, perfettamente reso nella sua doppiezza di personaggio viscido che, quando rimane solo, dà la stura al proprio vero carattere, ma sa proporsi a Tosca con un’immagine premurosa e rassicurante. Tra i numerosi ruoli secondari, i cui interpreti sono sempre risultati all’altezza, merita una segnalazione il sagrestano del baritono Matteo Peirone, per l’abilità nel tratteggiare questa figura in maniera giustamente ma non esageratamente caricaturale.
Gradevole è stato anche ascoltare la seconda compagnia (recita del 19 gennaio), composta da professionisti di tutto rispetto anche se un po’ meno “nosediani”: voglio dire che, mentre gli interpreti della prima compagnia, e penso in particolar modo al soprano, hanno sposato appieno l’interpretazione del direttore che mirava mettere in luce i contrasti ed i dettagli più inconsueti della partitura, gli interpreti della seconda hanno dato vita ad una Tosca più tradizionale, più simile a quella che tutti gli ascoltatori si portano nelle orecchie e si aspettano di riascoltare ogni volta. In alcuni momenti si è perciò avuta l’impressione che orchestra e solisti non marciassero perfettamente sugli stessi binari quanto a scelte interpretative, ed il volume non molto corposo delle voci maschili faceva sì che spesso l’orchestra prevalesse sul palcoscenico. Il tenore Lorenzo De Caro ha scelto un approccio piacevolmente cantabile al personaggio di Cavaradossi, che è risultato dipinto correttamente anche se un po’ sottotono, senza particolari rilievi psicologici né varietà di colori; il suo momento migliore è stata l’esplosione del «Vittoria! Vittoria!» nel II atto. Similmente si può dire dello Scarpia di Silvio Zanon, che non ha saputo rendere vivi gli artifici dissimulatori del proprio personaggio. Sicché l’interprete più convincente è stata il soprano Maria José Siri, Tosca dalla voce voluttuosa. capace di delicatezza nel «Vissi d’arte» come di potente intensità drammatica nel racconto dell’uccisione di Scarpia, culminato in un fermo e limpido acuto sulla parola «lama».