Teatro Comunale di Firenze:”La Bohème”

Firenze, Teatro Comunale, Stagione lirica 2011
“LA BOHÈME”
Scene liriche in quattro quadri su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger. Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo AQUILES MACHADO
Schaunard SIMONE DAL SAVIO
Benoît ANDREA CORTESE
Mimì CARMELA REMIGIO
Marcello STEFANO ANTONUCCI
Colline MARCO VINCO
Musetta ALESSANDRA MARIANELLI
Parpignol LEONARDO MELANI
Sergente dei doganieri VITO LUCIANO ROBERTI
Un doganiere LISANDRO GUINIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
I Ragazzi Cantori di Firenze
Direttore: Carlo Montanaro
Maestro del coro: Piero Monti
Maestro del coro di voci bianche: Marisol Carballo
Regia: Mario Pontiggia
Scene e costumi: Francesco Zito
Luci: Gianni Paolo Mirenda
Allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze 25 novembre 2011

La Bohème è il penultimo titolo che il Maggio Musicale Fiorentino propone al suo pubblico per la stagione 2011 con un allestimento portato già in scena nel 2008 per il ciclo di “Recondita armonia” vantante la regia di Mario Pontiggia, le scene e i costumi di Francesco Zito e le luci di Gianni Paolo Mirenda che scelgono di realizzare uno spettacolo caratterizzato dalla tradizione e da una fedeltà al libretto piuttosto stretta.
La soffitta dei bohèmiens è una spaziosa “tana squallida” la cui luminosità è garantita da un ampio lucernario di fondo dal quale, nel quadro IV (quand’è giunta “la stagion dei fior”), è possibile ammirare una vista sulla Parigi dei grandi boulevards  posticipando la collocazione cronologica del dramma di almeno trent’anni; immancabile il lettuccio che verrà posizionato a 45° rispetto alla ribalta sul quale si immolerà l’innocenza di Mimì. Il festoso quadro II immerge gli astanti in quella sfrenata joie de vivre tanto amata da quel gruppo di artisti che col loro linguaggio un po’ provocatore hanno cambiato la concezione dell’arte visiva occidentale e che miseramente vivevano un po’ come i protagonisti di quest’opera: gli impressionisti. Fin dall’aprirsi del sipario è un’esplosione di umanità in tutte le sue sfaccettature, dagli ambulanti agli studenti sempre senza soldo, dai bimbi ansiosi di godere di quelle piccole felicità che possono essere “la tromba, il cavallin” alle mamme e balie fino alle donne di mondo e ballerine dei locali notturni tra le quali non è molto difficile scorgere una Violetta Valéry, o la Goulue che tanto incantò Tolouse Lautrec: tutte femmes perdue destinate ad essere inghiottite dall’inesorabile scorrere del tempo che tutto corrode compresa la “bella età d’inganni e d’utopie” in cui “si crede, spera, e tutto bello appare”. Questo è il destino al quale non troveranno scampo nemmeno i protagonisti di quest’opera, che con i tempi di crisi economica e morale che oggi l’umanità sta attraversando, appare, soprattutto alle nuove generazioni dell’alba del Terzo Millennio, di un’attualità a dir poco gravosa. Nel quadro III, infine, l’ambientazione alla Barrière d’Enfer è ricreata costruendo lo scorcio di uno dei bassifondi ai margini di una metropoli nella morsa d’un invernale gelo, presagio della morte imminente che piomberà nel successivo quadro.
Carmela Remigio, torna ad affrontare il ruolo di Mimì con particolare disinvoltura. A una piena immedesimazione col personaggio, il soprano sa trasporre nella dolcezza della musica che caratterizza la gaia fioraia tutto quel bagaglio di tecnica vocale che con i ruoli mozartiani ha saputo ben far tesoro nel corso della sua carriera; la sua presenza sul palco è caratterizzata da un crescendo della portata emozionale: dalla maliziosità del quadro I (che cede il posto alla dolcezza in “Si, mi chiamano Mimì”), alla spensieratezza del II, alla profondità del III (con diverse sfumature tra i momenti in duo che in quello a solo di “Donde lieta uscì”), alla totale immedesimazione con la tragicità del IV. Il Rodolfo di Aquiles Machado esordisce con una voce che ha bisogno ulteriormente di scaldarsi, ma che appare pienamente invigorita già nel celeberrimo “Che gelida manina” tanto da garantire un momento appagante per un pezzo sempre molto atteso. Raffinato e sempre ben delineato sia vocalmente che teatralmente per tutta la recita. Marco Vinco rende un Colline vigoroso con voce di basso emessa con morbidezza ed espressività, pienamente corrispondente alla  salda profondità d’animo del personaggio che trova  piena conciliazione nella celebre “Vecchia zimarra, senti”. Ben calibrate  le prestazioni di Stefano Antonucci (Marcello) e di Simone Del Savio (Schaunard) che incarnano personaggi con fraseggi e linee di canto eleganti. Alessandra Marianelli è un soprano, contenuto nei virtuosismi, con voce levigata nel timbro e sfumata nella coloratura. La sua è una Musetta che mette piuttosto da parte la civetteria tipica di questo personaggio conferendole, stavolta, una tragicità più concitata già dal quadro II e soprattutto nel III, momento in cui intervenendo nel duetto Mimì-Rodolfo con Marcello si sfocia in un quartetto in cui i piatti della bilancia tra dramma e comicità portanti avanti dalle due coppie non sono pienamente a pari livello: Marcello e Musetta non scherzano, il loro diverbio è un vera e propria fine di relazione decisamente violenta in cui le battute finali (- “Pittore da bottega!”, – “Vipera!”, – “Rospo!”, – “Strega!”) sono degli insulti veri e propri. Andrea Cortese è un Benoît che asseconda le scelte registiche di un proprietario taccagno e dalla carne debole quanto costantemente imbronciato. Bene Leonardo Melani in un divertentissimo Parpignol che forse sbava in un eccesso di regia, Vito Luciano Roberti nel Sergente dei doganieri e Lisandro Guinis nel Doganiere.
Sul podio sale Carlo Montanaro, si è in parte formato nell’ambito dell’orchestra che in questa occasione sta dirigendo, quella dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. I suoi tempi sono molto dilatati, ricchi di lunghe pause e ampi momenti di contemplativa stasi tendendo a sottolineare gli stati d’animo più profondi dei personaggi e mettendo in risalto la riflessione sulle due facce di bellezza e crudeltà della stessa medaglia della vita. Ciononostante nel III quadro, e in parte anche nel IV quadro (almeno fino al finto duello tra Colline e Schaunard), la direzione si sfibra diventando di pesante fruibilità e con un’orchestra che pare svaporarsi. La prova stessa dei cantanti ne risente, mostrando  vistose mancanze di intenti, in particolare nel finale del quadro III e nel duetto Rodolfo-Marcello “O Mimì tu più non torni”. La direzione poi si riprende nel finale ultimo, apparendo  molto profonda, meditativa, retta da un latente silenzio di sconsolatezza. Una nota di riguardo per l’arpa di Susanna Bertuccioli che nel corso di tutto lo spettacolo suona il suo galante strumento in tal modo da emergere dal corpo orchestrale, tanto da riuscire a conferire alla musica, con la sua costante presenza, un leitmotiv aggiuntivo alle emozioni dei personaggi. Al Coro del Maggio preparato da Piero Monti si accostano I ragazzi cantori di Firenze diretti da Marisol Carballo: nel quadro II, grazie soprattutto al loro riuscito lavoro di incastri delle più voci, le suggestioni già descritte si rivelano riuscite e partecipate. Pubblico garbatamente consenziente, ma piuttosto freddino (come spesso accade a Firenze). Qualche contestazione alla direzione.