Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione Lirica 2011/2012
“SEMIRAMIDE”
Melodramma tragico in due atti, libretto di Gaetano Rossi, dalla Tragédie de Sémiramis di Voltaire
Musica di Gioachino Rossini
Semiramide MARIA PIA PISCITELLI
Arsace CARMEN TOPCIU
Assur SIMONE ALBERGHINI
Idreno BARRY BANKS
Oroe FEDERICO SACCHI
Azema ANNIKA KASCHENZ
Mitrane DAVID FERRI DURA’
L’ombra di Nino GIANVITO RIBBA
Coro e orchestra del Teatro di San Carlo di Napoli
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del Coro Salvatore Caputo
Regia Luca Ronconi
Scene Tiziano Santi
costumi Emanuel Ungaro
Luci A. J. Weissbard
Napoli, 27 novembre 2011
Luca Ronconi ritorna al San Carlo per inaugurare la stagione lirica a due anni dalla sua ultima apparizione sulla platea partenopea. Con lui ritorna anche Gabriele Ferro sul podio dopo un’assenza più lunga… sette anni! Ma l’assenza più lunga la vanta lei, la regina di babilonia, che ritorna in palcoscenico dopo 25 anni. Regista e direttore muovono da una comune intuizione: Semiramide è una donna-guerriera! Il primo lo dichiara nell’intervista contenuta nel programma di sala (ma lo dimentica presto) il secondo lo lascia trasparire dal lavoro sulla materia musicale, sapientemente alternando fragori e colori forti alla serafica calma dell’estasi amorosa.
Un percorso in cui Ferro tiene le orecchie puntate verso il Moïse scaligero diretto da Riccardo Muti con cui certo il titolo veneziano condivide grandiosità e solennità, ma non certo la cifra oratoriale, sebbene rimanga ancorato, per la maggior parte, ai rigidi canoni delle forme musicali solistiche. Semiramide è guerriera, si diceva! Ferro prova ad imporgli una bellicosa spinta fin dall’ouverture iniziale, dove però dimentica di fare i conti con la forma non ottimale della compagine orchestrale sancarliana, molto spesso imprecisa nella sezione dei legni quanto molto attenta alle sollecitazioni in quella degli ottoni. Di contro in alcuni momenti tutto è ricondotto ad una eccessiva quadratura metronomica, vedi il coro «Di plausi qual clamor/ Ah! Ti vediamo ancor» o la cabaletta di Arsace; in altri ancora si raggiungono eccellenti esiti: «Alle più care immagini», i due finali o i grandi concertati di stupore. In sintesi una direzione alterna ma governata dal pensiero di una teatralità viva e partecipata.
A farla drasticamente soccombere, ci ha pensato la regia di Luca Ronconi, autore di uno spettacolo che se non brutto (poiché non scevro da una sommaria eleganza) è di certo “pigro”, non solo in ragione della sonnolenza che suscita, quanto in ragione della fiacchezza delle idee poste in gioco. Coadiuvato da Tiziano Santi (scene), Ronconi ambienta Semiramide in un’angusta viscera marmorea e severa, all’interno della quale tutto (personaggi compresi) arriva e scorre. Esulano da questa struttura due blocchi cubici semoventi, anch’essi marmorei, sui quali tutti i personaggi cantano le loro arie, spostati verso il boccascena, con gli occhi puntati sul direttore, e sottratti ad ogni logica di azione. L’operazione mirava ad un duplice intento: da un lato, disegnare protagonisti passivamente guidati da un arcano fato verso azioni spesso efferate; dall’altro, esaltare la monoliticità delle forme rossiniane. L’opera così corre il rischio di diventare ciò che non è (un oratorio) e di perdere la sua naturale vocazione all’azione. E nel vedere lo spettacolo ritorna alla mente proprio ciò che Ferro teneva a riferimento: il Moïse scaligero, a cui evidentemente il regista provava erroneamente a rifarsi. Rispetto a quell’occasione, dove già certo l’azione era ben lontana dal palcoscenico, Ronconi forza ancor più la mano: relega il coro nella fossa orchestrale, convinto, a suo dire, che abbia la stessa funzione che ha nella tragedia greca, una funzione non drammatica ma di commento all’azione. Al di là dell’inesattezza di tale postulato, il coro nella Semiramide una funzione drammatica ce l’ha, eccome! Esso da un lato crea l’attesa dei potenti, li osanna, li incensa, dall’altro li giudica nella maniera più violenta e spietata possibile.
Con il coro castigato in buca, molte scene perdono senso drammatico mentre musicalmente si dissipa buona parte della forza teatrale dell’opera, con buona pace di Ferro che si agita per gonfiare oltremodo i volumi. Ronconi per di più elimina anche l’ombra, porgendo i migliori saluti agli studi musicologici (anche recentissimi) sul tema, e fa calare dall’alto una improbabile tomba in plexiglass contenete la salma di Nino. Una salma che non spaventa i personaggi, figurarsi il pubblico. In questo contesto si muove una regia di plastica e soporifera staticità con alcuni momenti inclini al ridicolo; uno su tutti, il duetto fra Assur e Arsace in cui davanti ad Azema placidamente dormiente, i due cantano a squarciagola il loro amore per lei, la accarezzano, le sussurrano nell’orecchio dolci parole, senza che il sonno della suddetta ne risenta in alcuna maniera.
A peggiorare ulteriormente la resa dello spettacolo ci pensano non tanto le luci di A. J. Weissbard (invero nel II atto quasi gradevoli), quanto i brutti costumi di Emanuel Ungaro con corazze di gomma che aderiscono ai busti degli interpreti dando l’impressione della nudità. In sintesi, un allestimento che sembra parto di menti stanche del e dal teatro. Veniamo alle voci.
Maria Pia Pisticelli è un soprano di fibra verdiana prestato a Rossini e alla regina di Babilonia… con tutto quel che questo comporta. Canta con attenzione e scrupolo sia le parti liriche che quelle virtuose (lo si vede fin dalla stretta della terza scena). Di contro non si può non segnalare un metallo poco confacente alla scrittura rossiniana, una certa durezza negli attacchi (uno su tutti quello del «Bel raggio lusinghier») e una leggera velatura che percorre la voce in tutti i registri. Il momento migliore della sua prestazione rimane sicuramente «Giorno d’orrore!… E di contento», dove la precisione nel canto vocalizzato si piega con grande intelligenza alle regole della dinamica e dell’espressività.
Qui la Pisticelli ha veramente rivaleggiato in bravura con Carmen Topciu che a sua volta ha disegnato un Arsace di pregevolissima fattura fin dalle prime battute del recitativo «Eccomi alfine in Babilonia». La voce non è immensa in termini di volume, ma è di musicalità sopraffina, governata con l’intelligenza dello studio e la sagacia della vocalista esperta. Il canto virtuoso scorre fluido e spontaneo laddove la scrittura del ruolo lo esige e una volta colmato qualche sporadico divario timbrico nelle note gravi della tessitura la metabolizzazione del ruolo potrà dirsi davvero completa. Che Simone Alberghini (Assur) sia il migliore del cast lo si vede fin dal suo ingresso nell’insieme «A quei detti, a quell’aspetto». La voce ormai è davvero autorevole per volume risonanze e colori. Il basso bolognese, che il recente passato ci ha abituato ad ascoltare in ruoli decisamente più buffi, ha una linea di canto pervasa di nobiltà e morbidezza (utilissima nell’aria del II atto, denigrata della regia), uno stile fluido e spontaneo, la grazia di un legato esemplare. Se a questo si aggiungono la precisione, la minuzia, la varietà e l’espressività con cui snocciola tutte le agilità della scrittura (splendide quelle staccate su «Và, superbo: in quella reggia» e quelle del duetto con Semiramide all’apertura del II atto), rimangono due conclusioni: la prima è che preferiamo l’Alberghini “drammatico” a quello “buffo” poiché il timbro risponde meglio alle esigenze del dramma che del riso; la seconda è che l’artista possiede ormai tutte le carte in regola per godere del “grado eletto” di rossiniano D.O.C. Unitamente ai nostri complimenti, la speranza che la ragione dell’uomo governi con sapienza la generosità del cantante di modo da non svendere alla causa del repertorio una voce preziosa.
Barry Banks è noto agli amatori per le sue incisioni (in larga parte rossiniane) con OperaRara. Appartiene a quella categoria di tenori contraltini anglofoni dal timbro ingrato e dalle nasalità insistenti, ma non gli si può certo negare di avere tutte le carte (leggi “le note”) in regola per l’impervio ruolo di Idreno, che affronta con impegno, partecipazione, acuti e sovracuti (non sempre emessi con la stessa spontaneità). Certo il nostro orecchio italico è abituato ad uno stile maggiormente raffinato (specie in «Ah dov’è il cimento») ma infondo… basta accontentarsi!
Quanto all’Oroe stentoreo di Federico Sacchi, il solo incipit dell’opera basta per segnalare una prestazione opaca e in grande misura fuori registro. Timbricamente ingrata l’Azema di Annika Kaschenz; bene il Mitrane di David Ferri Dur e Gianvito Ribba negli interventi fuori scena dell’Ombra di Nino. Alla fine dello spettacolo, la maleducazione della platea del San Carlo, già in altre circostanze segnalata, è tornata prepotentemente alla ribalta: sipario chiuso… e fuga di massa verso guardaroba e taxi, con buona pace per gli artisti che, indipendentemente dagli esiti, dopo aver cantato per quasi quattro ore, avrebbero gradito una meritata ricompensa ai loro sforzi. Civiltà ed educazione a volte passano anche attraverso un applauso: ricordiamo agli abbonati che queste non sono comprese nel prezzo del biglietto…
Foto Luciano Romano – Teatro San Carlo di Napoli