“La maledizione!(parte terza)

Rispetto al modello francese il libretto approntato da Piave, pur nella riduzione dei 5 atti de Le roi ai tre del Rigoletto, non si distacca molto dall’originale, anzi, nella maggior parte dei passi, si presenta quasi come un traduzione fedele. La sostanza del testo di Hugo è, quindi, conservata e con essa la sua efficacia drammatica, come si evince già nelle prime sei scene dell’atto primo, dove Piave tradusse fedelmente l’intero primo atto dell’originale, aggiungendo soltanto Questa o quella, che servì al Nostro per approfondire il carattere libertino del duca, mentre conservò sia il dialogo del re-duca con M. de La Tour-Landry, ribattezzato Borsa, sia il tentato approccio con Madame de Cossé, divenuta, nel libretto, Contessa di Ceprano.
Piave, inoltre, seguendo sempre fedelmente l’originale, rappresentò lo stridente contrasto tra il clima leggero e festaiolo dell’inizio e il drammatico momento conclusivo, quando fa la sua apparizione sulla scena M. de Saint-Vallier, il Conte di Monterone dell’opera verdiana, che, venendo a reclamare l’onore della figlia, violato dal duca, in cambio del condono della pena inflitta al padre per aver congiurato contro di lui, maledice il duca-re e il suo buffone che non solo si era permesso di ridere del dolore del padre per quanto era avvenuto alla sua Diane de Poitiers, ma, nel modello francese, aveva anche offeso la stirpe del nobiluomo.
Mentre Hugo pose in bocca queste parole a Tribolet:
“Monseigneur ! vous aviez conspiré contre nous, / Nous vous avons fait grâce, un roi clement et doux. /C’est au mieux. Quelle rage à present vient vous prendre / D’avoir despetits-fils monsieur votre gendre? / Votre gendre est affreux, mal bàti, mal tourné / Marqué d’une verrue au beau milieu du né…”
Piave si limitò a riportare solo l’insulto nei confronti della figlia:
“Voi congiuraste, voi congiuraste contro noi, signore;
e noi, e noi, clementi in vero, perdonammo…
Qual vi piglia or delirio, a tutte l’ore
di vostra figlia a reclamar l’onore?”
Il librettista veneto, concentrando l’attenzione sul dolore del padre per il disonore occorso alla figlia, ha voluto mettere in parallelo la triste vicenda di Monterone e la situazione che di lì a poco avrebbe vissuto Rigoletto, la cui figlia Gilda, nell’opera verdiana, sarà sedotta dal duca; la maledizione, scagliata da Monterone contro Rigoletto, dunque, ha, in questo modo, maggior valore e finisce per ricadere sul gobbo che inesorabilmente vivrà la stessa situazione del Conte, oggetto del suo scherno. Proprio nel momento in cui Monterone scaglia la maledizione contro il duca e Rigoletto, il libretto di Piave si distacca nettamente dal testo francese, in quanto riduce il lungo monologo del Conte, conservandone solo l’ultima parte, dove traduce le parole di M. de Saint Vallier:
“Soyez maudits tous deux!  Au roi Sire, ce n’est pas bien Sur le lion mourant vous lâchez votre chien”
A Triboulet.” Qui que tu sois, valet à langue de vipère, Qui fais risée ainsi de la douleur d’un père, Sois maudit !”
con Monterone:
Ah, siate entrambi voi maledetti! Slanciare il cane a leon morente
è vile, o Duca… e tu, serpente,  (a Rigoletto) tu che d’un padre ridi al dolore, sii maledetto!

Da questo momento in poi la maledizione diventa la vera e propria protagonista dell’opera, in quanto si trasformerà per Rigoletto in una vera e propria ossessione; ecco, infatti, il buffone nella scena successiva dire subito Quel vecchio maledivami che traduce le parole dell’incipit dell’atto secondo del testo di Hugo Ce vieillard m’a maudit! e che ripete dopo il commiato con Sparafucile, il sicario che gli aveva appena offerto la sua opera. La maledizione, del resto, diventa, per Rigoletto, una costante e scandirà i momenti più drammatici della sua vicenda, rappresentati dal rapimento della figlia e dalla morte della stessa, anche se, in quest’ultimo caso, Piave decise di distaccarsi dal modello francese che non lascia traccia di questo riferimento sulla bocca di Tribolet, mentre per il duca la situazione sarà completamente diversa; Piave, infatti, seguendo Hugo, decise di sollevare dalla maledizione il duca quando, alla fine dell’atto secondo, Monterone, condotto al carcere, si ferma di fronte ad un ritratto del duca, esclamando:

“Poichè fosti invano da me maledetto,

nè un fulmine o un ferro colpiva il tuo petto,
felice pur anco, o duca, vivrai!…”

Ma questa maledizione di Saint-Vallier, titolo della prima stesura del Rigoletto, poi censurata, è protagonista solo nel libretto o anche  nella musica? La parte musicale del Rigoletto, infatti, è stata costruita come se il titolo non fosse mai stato cambiato, in quanto Verdi, in barba alla censura e consapevole del fatto che la musica, linguaggio di suoni, è certamente più vago di quello delle parole di un testo letterario, decise di aprire e chiudere l’opera con il tema della “maledizione”.  Questo tema (Es. 1), affidato, nel preludio, agli ottoni e costituito da dei ribattuti di tonica che sfociano su una settima diminuita, non richiama, né melodicamente né armonicamente, quello che accompagna le parole di Monterone (Es. 2) mentre scaglia l’anatema nei confronti del buffone, ma il ricordo, quasi ossessivo, che attanaglia Rigoletto, proprio quando pronuncia le parole Quel vecchio maledivami!  (Es. 3)

Es.1

 

 

Es.2

Se guardiamo l’abbozzo dell’opera, a cui Verdi lavorò prima della stesura definitiva[1], possiamo notare che il Nostro decise di modificare proprio questo punto, riconducendolo al disegno del preludio, in quanto l’ascensione melodica del do al fa (Es. 4), suono su cui cadeva l’accento della parola maledetto, nel momento in cui Monterone scaglia la maledizione contro Rigoletto, è stata ricondotta ad un do ribattuto sulla settima diminuita; di questa maledizione Verdi, quindi, ha scelto di fornirci due versioni musicali diverse, di cui la prima rappresenta le reali parole di Monterone e la seconda, invece, la sua ripercussione nell’animo di Rigoletto.

Es. 4

 

Più di Rigoletto, quindi, è la Maledizione di Sain-Vaillier, ad essere la vera protagonista dell’opera per un Verdi, che, alla fine, è riuscito a dare alla sua creatura, un’impronta ben diversa da quella che avrebbe voluto una censura, capace forse di modellare il testo ma non la musica che ha interpretato perfettamente la lettera de Le roi s’amuse
(Fine)

 


[1] Cfr. julian Budden, Le opere di Verdi, Vol. I, E.D.T, Torino, 1985, p. 49.