Roma, IUC Istituzione Universitaria Concerti, Stagione concertistica 2011-2012 – Aula Magna dell’Università La Sapienza
Bach e Vivaldi: Suites e Concerti
Concerto Italiano
Direttore Rinaldo Alessandrini
Johann Sebastian Bach: Suite n. 1 in do maggiore BWV 1066
Antonio Vivaldi: Concerto in sol minore per flauto traverso e archi RV 439 «La notte»
Concerto in re minore per due oboi e archi RV 535
Johanna Sebastian Bach: Suite n. 2 in si minore per flauto traverso e archi BWV 1067
Roma, 5 novembre 2011
Prosegue la stagione concertistica dell’Istituzione universitaria dei Concerti con un avvenimento che ha il sapore del grande evento. Dopo dieci anni, infatti il Concerto Italiano e il suo direttore tornano a far visita alla Sapienza con un programma semi-monografico, con due compositori così diversi, accomunati solo dalla stagione musicale a cui entrambi appartengono (quella del barocco). In realtà il rapporto fra Antonio Vivaldi e J. S. Bach è meno freddo di quello che si possa pensare. A tesserlo, il Principe Ernest di Saxe-Weimar che in un suo viaggio in Olanda oltre a conoscere organista cieco J.J. De Graf (avvezzo ad eseguire trascrizioni vivaldiane per organo solo) acquistò fra l’altro uno spartito dell’Opera 3 del prete rosso, per sottoporla all’attenzione del compositore tedesco. Quest’ultimo è probabile però conoscesse già per altra via le gesta vivaldiane, dato che la sua figura era nota in Germania fin dal 1706.
Fatte queste debite precisazioni dobbiamo ammettere che ci siamo recati al concerto carichi di aspettative, consci in parte della bellezza del programma e in altra parte della risaputa e consolidata bravura degli esecutori. È tuttavia opportuno, nel riferire della serata, procedere con dei debiti distinguo non tralasciando alcune “marginali” considerazioni, in ragione anzitutto dell’organico e dell’acustica. Dunque, Rinaldo Alessandrini arriva all’Aula Magna della Sapienza, con un organico ristretto che pare altamente selezionato in ragione della qualità e di rigidi intenti filologici: Elisa Citterio e Laura Mirri (violini), Ettore Belli (viola), Laura Pontecorvo (flauto traverso), Simone Toni, Avidan Gershoni (oboi) e Maria De Martini (fagotto), mentre lo stesso Maestro, come di consueto, si agita e dirige dal cembalo. Tutti questi signori hanno la grande virtù di esibirsi con strumenti originali e di essere togati nel repertorio proposto. L’unico particolare è che del suono dei loro strumenti negli ampi, e acusticamente assai imperfetti, spazi dell’Aula Magna giunga molto poco all’orecchio degli ascoltatori, nonostante il direttore si sbracci per trasmettere fuoco e furore all’esecuzione.
E se la Suite num. 1 di Bach scorre senza intoppi, anche se la ricercata aridità del suono rischia di scivolare nell’eccesso di matematicità e cadenza, i problemi maggiori arrivano con il concerto “la Notte”. Qui 5 archi più cembalo e traverso in legno appaiono davvero pochi per rendere piena giustizia alla pagina vivaldiana e per esaltarne al meglio il rigoroso contrappunto. Alessandrini però ci mette del suo: nel Largo iniziale dilata a dismisura le pause al punto che la musica stessa pare rompere un ricercato silenzio, nel Presto successivo procede per contrasto con il pezzo precedente per rapidità di staccati e sforzati uniti a scurissimi colori nelle parti in ribattuto. Non condividiamo di contro la scelta di eseguire il successivo Largo (“Il sonno”) e l’Allegro senza soluzione di continuità, privandoli cioè della necessaria pausa.
Nella seconda parte del programma (la Suite 2 n Si minore di Bach e il Concerto il Re min. per due oboi di Vivaldi), complice forse ancora una volta l’ingrata acustica, si fa strada l’impressione di un repertorio di routine rispolverato per l’occasione ma in fin dei conti poco approfondito ed indagato che non arriva al cuore e alla mente, che non imprime e non colpisce l’ascolto. Lasciamo così la sala con alcune domande di varia natura che ci assalgono: perché non raddoppiare la viola nella Suite di Bach? Perché non selezionare un organico più ampio? Perché, credere così poco in questo ritorno romano? Perché, in ultima istanza, non credere in un evento che aveva tutte le carte in regola per lasciare un segno indelebile nella storia dell’Istituzione Universitaria dei Concerti? Ha senso, in conclusione, accanirsi in maniera tenace sulla filologia anche qualora i suoi esiti siano percepibili solo dalle prime quattro file della platea? Interrogativi senza risposta, che fanno a gara con l’idea che il Concerto Italiano e il suo direttore abbiano sottovalutato, se non forse anche un pochino snobbato, il loro ritorno romano.