“Věc Makropulos” per la terza volta a Firenze

Firenze, Teatro Comunale, Stagione 2012 del Maggio Musicale Fiorentino
“VĔC MAKROPULOS” (L’affare Makropulos)

Libretto e musica di Leoš Janáček
Emilia Marty ANGELA DENOKE
Albert Gregor MIRO DVORSKY
Hauk-Šendorf: KARL MICHAEL EBNER
Dr. Kolenatý ROLF HAUNSTEIN
Jeroslav Prus ANDRZEJ DOBBER
Janek MIRKO GUADAGNINI
Vítek JAN VACIK
Kristina JOLANA FOGOSOVA
Un macchinista ROBERTO ABBONDANZA
Un’inserviente STEFANIE IRANYI
Una cameriera CRISTINA SOGMAISTER
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del Coro Piero Monti
Regia William Friedkin
Scene e ideazione delle proiezioni Micharl Curry
Fotografie originali Rocky Schenck
Costumi Andrea Schmidt-Futterer
Luci Mark Jonathan
Nuovo allestimento
Firenze, 27 ottobre 2011

Věc Makropulos è un capolavoro di rara esecuzione e Firenze non fa eccezione: era il 1966 quando presso il Teatro della Pergola questo titolo venne per la prima volta proposto in forma scenica al pubblico italiano con la direzione di František Jilek; bisognerà aspettare il 1983 per la seconda rappresentazione diretta da un grande Bruno Bartoletti al quale seguirà un silenzio rotto solo da questo allestimento: una nuova produzione da festival firmata Mehta-Friedkin per la ripresa operistica delle attività liriche del Maggio Musicale Fiorentino.
Epicentro e motore dell’azione di questo thriller psicologico è la cantante Emilia Marty che nel 1922 vive il suo 337° anno di vita per via di un folle esperimento dell’Imperatore Rodolfo II che bramava all’eternità. Cambiando continuamente nome anagrafico, da Elina Makropulos a Ellian MacGregor a Eugenia Montez a Elsa Müller a Ekaterina Myškin, la protagonista ormai logorata nella sua interiorità sceglie di porre fine alla sua lunghissima esistenza terrena.
I primi due atti sono segnati da un tempo del racconto dilatato a cui corrisponde un tempo della storia abbastanza compresso che verte tutto sulla morbosa volontà di Emilia di rintracciare la ricetta del terribile elisir di lunga vita; al contrario, il terzo atto si distingue per un drammatico precipitare degli eventi che si risolvono nell’epilogo della tanto desiderata morte corporale di Emilia e alla soluzione del lunghissimo “Caso” Makropulos. In considerazione di ciò la musica dei primi due atti è piuttosto statica, monolitica, carica di una tensione quasi straziante e trascinante riflettendo perfettamente l’animo ormai stanco e pieno d’angoscia della protagonista; la musica del terzo atto, invece, si caratterizza per un carattere decisamente più drammatico e distinto, più ricca di colori e sfumature, comunque brumose, indicatore di una tragedia imminente, ma necessaria per porre fine allo strazio interiore d’un’anima.
La musica d’insieme (sia orchestrale che corale) è sempre narrativa: l’orchestra ci narra dello stato d’animo di Emilia in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sua angosce e i suoi tormenti; allo stesso modo il coro maschile fuori scena del terzo atto è la personificazione del pensiero degli astanti che assistono al sublime monologo della principale protagonista.
Queste le linee guida che Zubin Mehta sceglie nel dirigere questo capolavoro di non sempre facile fruibilità sia per gli interpreti che per il pubblico. Il direttore fa suo il profondo stato di disagio della Marty traducendolo musicalmente in momenti di lunghi passaggi in cui l’orchestra ora diventa riflessiva ora sottolinea quegli attimi di insofferenza verso un mondo corrotto e verso il quale non si prova più emozione. Partitura, direzione e regia hanno tutti un unico carattere: espressionista. Così come gli artisti della Die brücke privilegiavano linee nette e spezzate e colori acidi e violenti, così si caratterizzano le tre componenti appena enunciate di questo spettacolo.
La regia di Friekin è tra le più mirate per un titolo come questo. Dopo un Wozzeck del 1998, il maestro sceglie di portare agli estremi i sentimenti di tutti i protagonisti mostrandoli al pubblico in tutta la loro nudità di soggetti decadenti nell’animo e sofferenti per la loro condizione di continua frustrazione.
Grande primadonna è Angela Denoke che torna ad interpretare questo ruolo di Emilia dopo le esperienze alla Scala di Milano nel 2009 e al Salzburger Festspiele nella passata estate: eccellente nella recitazione, più che buona per quanto riguarda la vocalità: completamente a suo agio nel registro centrale, mentre nel registro basso tende a gonfiare l’emissione evitando molto intelligentemente il registro alto. La Denoke offre una voce  ricca di sfumature brumose, colori caratterizzati da un torpore che rende giustizia al turbamento interiore della protagonista cimentandosi in un’alternanza tra canto e recitazione equilibrata ed efficiente. Miro Dvorsky incarna un Albert Gregor bruciante di una passione non ricambiata dando una prova eccellente soprattutto dal punto di vista recitativo affiancando un’emissione vocale a tratti tesa che purtroppo non riesce a sbavare in una breve, ma stridente afonia di fuori registro in uno dei momenti drammaturgicamente più vivaci. Molto bravi Karl Michael Ebner ( Hauk-Šendorf), Rolf Haunstein (Dottor Kolentý), Andrej Dobber (Jeroslav  Prus), Jan Vacik (Vítek) impersonando caratteri gravosi e affannati in un’inquietudine cronica; una nota di merito allo Janek di Mirko Guadagnini e alla Kristina di Jolana Fogašová che si distinguono per un’interpretazione particolarmente affiatata ed emissioni vocali molto apprezzabili. Bene anche i comprimari Roberto Abbondanza (un macchinista), Stefanie Iranyi (un’inserviente) e Cristina Sogmaister (una cameriera).
Le scene sono curate dal puppet designer Michael Curry che sono, come tutto l’allestimento, decisamente espressioniste: dalla quinta scenica praticabile che caratterizza il primo atto con i suoi colori patologici, all’efficiente intuizione (nel secondo atto) di rendere l’ambiente teatrale nel mondo più semplice e diretto possibile: mostrando la struttura scenica del palco del Teatro Comunale di Firenze in tutta la sua quotidianità, dagli strumenti tecnici agli impianti della luministica.
Decisamente coinvolgente l’epilogo finale della morte di Emilia che perisce in un fuoco purificato proiettato e insieme alla quale brucia anche il foglio della ricetta che l’ha condannata a 337 anni di vita. Il light designer Mark Jonathan sceglie tinte cupe, equivoche, mai brillanti di piena luminosità; a lui anche il merito dei buoni giochi di luce delle ombre dei personaggi che si poggiano sulle pareti (nel secondo atto) moltiplicando il risvolto interiore ed oscuro di essi. Buoni i costumi di  Andrea Schmidt-Futterer che sono in assonanza in un allestimento caratterizzato dalla tipica dissonanza che si respira in ogni misetry che si rispetti, mentre le fotografie originali di Rocky Schenck proiettate nel corso del preludio orchestrale, seppur bellissime, ci sono parse completamente fuori tema.
Applausi per tutto il cast a scena aperta; particolarmente apprezzati Zubin Mehta e Angela Denoke da un pubblico che si è dimostrato attento e abbastanza numeroso se si considera che è accorso ad una replica di un titolo che indubbiamente non può vantarsi di essere popolare.