Dopo dieci rappresentazioni alla Scala, l’opera cominciò il suo cammino su tutti i palcoscenici italiani e il 15 novembre dello stesso anno si ebbe la prima rappresentazione all’ estero, all’ Academy of Music di New York.
Anche le accoglienze della critica furono tutte favorevoli, soprattutto quelle di Galli sul Secolo, di Colombani sul Corriere della Sera e di Nappi, il temuto critico de La Perseveranza che nel suo articolo del 31 marzo mise acutamente in rilievo la “felice intuizione del teatro” e la “ragguardevole penetrazione del significato di ogni quadro del dramma”. Una fama era fatta, dunque, come ribadiranno il trionfo, due anni più tardi, di Fedora (Milano, Teatro Lirico, 17 novembre 1898, con Gemma Bellincioni e il giovane Enrico Caruso) che mosse all’ entusiasmo persino Gustav Mahler, il quale volle dirigerla alla Hofoper di Vienna. Apro una parentesi per raccontare alcuni particolari riguardanti i rapporti di Mahler con le opere di Giordano. Ad Amburgo – sovrintendente Pollini, sempre pronto a fiutare le novità – Mahler dirige (6 repliche) di Andrea Chénier nel febbraio del 1897. Non ci interessa qui il giudizio sulla sua interpretazione, ma quello sull’ opera: il Fremdenblatt scrive che essa “possiede tutti gli elementi per piacere al pubblico per molto tempo”. Davvero lungimirante, quel critico!
1899, Mahler è già il re di Vienna: chiede 10.000 fiorini per allestire Chénier, ma gli vengono negati. Peggio, la sovrintendenza giudica eccessiva la richiesta (700 fiorini) di diritti da parte di Sonzogno, e Mahler esprime tutto il suo disappunto, dato che per Il Segreto e il Bacio di Smetana erano stati spesi 1800 fiorini a testa, e 2000 per I Medici di Leoncavallo!
Infine, sempre a Vienna, 1905: Mahler sta disperatamente lottando (e non avrà successo) per mettere in scena Salome. I giornali ricordano che, a suo tempo, la censura aveva espresso riserve (oltre che su I Medici e Erodiade di Massenet) anche sullo Chénier, poichè (ah, il verismo!) metteva in scena episodi della rivoluzione francese!
Tornando a Giordano, alla Fedora seguirono il successo di Siberia (Scala, 19 novembre 1903), lodata da Gabriel Fauré, le buone accoglienze toccate a Madame Sans Gene (New York, Metropolitan, 25 gennaio 1915, diretta da Toscanini), un argomento suggerito a Giordano da Verdi in persona, come ci testimonia Amintore Galli (A.Galli-G.Macchi-C.Paribeni,Umberto Giordano nell’ Arte e nella Vita, Milano, Sonzogno, 1915, p. 66), facente seguito però agli esiti incerti di Marcella (Milano, Lirico, 9 novembre 1907) e di Mese Mariano (Palermo, Teatro Massimo, 17 marzo 1910). Poi, dopo l’ operetta Giove a Pompei (1921) composta assieme a Franchetti, la parabola artistica di Giordano si concluderà con La Cena delle beffe (Scala, 20 dicembre 1924) e Il Re (Scala, 12 gennaio 1929, interpretato da Toti Dal Monte ed Enzo de Muro Lomanto): come per Mascagni, il destino di Giordano fu quello, malinconico, di chi sopravvive alla propria epoca che, nel caso dei musicisti della Giovane Scuola, era stata anche troppo breve. Infatti, di tutte le opere messe in scena in quel periodo, l’ ultima ad avere una vita teatrale regolare fu Adriana Lecouvreur di Cilea, che è del 1902: dodici anni appena era durata dunque la stagione verista (Puccini, come abbiamo già detto, vuole un discorso a parte).
Andrea Chénier, comunque, piace ancora, anche oggi che i gusti del pubblico sembrano lievemente mutati, sull’ onda di tante riproposte del repertorio belcantista e romantico.
E non c’ è dubbio che l’opera di Giordano contenga tutti i requisiti che occorrono per piacere all’ ascoltatore: felicità dell’ invenzione melodica, sicurezza nella caratterizzazione dei personaggi, ritmo teatrale tenuto sempre vivo, qualche volta anche esagerando nei colpi di scena. Gianandrea Gavazzeni ha opportunamente notato che Giordano, diversamente da altri musicisti della sua epoca, mira “…alla gettata della parte; intesa appunto in senso gestuale, quasi identificata nella forma dell’ attore cantante che dovrà essere Gèrard o Loris, Maddalena o Fedora. Sarà la stessa instintiva percezione del gesto scenico a orientare anche l’ orchestra di Giordano lungo gli affinamenti tecnici e le assimilazioni delle esperienze altrui. Infatti la sua orchestra è sempre una musicazione del gesto scenico. Ed è in questo l’ originalità, la differenza dalle altre orchestre del periodo naturalista”.
Ma in cosa possiamo riconoscere l’ appartenenza di Giordano al cosiddetto verismo? E qui si innesta anche la risposta alla domanda sulle ragioni del successo di quest’ opera, che ci eravamo posti in apertura di discorso.
Per le opere della prima stagione di questo movimento, verismo voleva dire soprattutto il trattamento di soggetti illustranti la realtà, anche e quasi particolarmente nei suoi aspetti meno edificanti. “Egli ha per massima sol che l’artista è un uom/e che per gli uomini scrivere ei deve./ Ed al vero ispiravasi”. Così le celebri parole del Prologo da Pagliacci, con le quali Ruggero Leoncavallo firmava il vero e proprio manifesto programmatico di questo nuovo genere. Era il prodotto di una società culturalmente plasmata dal positivismo e dal realismo, sull’ onda di influssi provenienti dalle letterature estere (e in particolare dalla Francia). In musica, questi soggetti vengono trattati con la rinuncia alla dicotomia tradizionale fra il recitativo e l’ aria (a cui anche Verdi, con le sue ultime due opere, aveva con tribuito a dare un colpo pressoché definitivo) sostituita, nei pezzi che mantenevano la struttura strofica, da forme popolareggianti come lo stornello e la ballata. Inoltre, al posto delle leggi morali salde e inattaccabili che regolavano il teatro romantico, l’elemento motore delle opere veriste è la sensualità, ovvero la lotta del maschio con la femmina. È anche questo, come è già stato notato, un carattere che deriva dall’ operismo francese di fine secolo, e dalla Carmen in particolare.
A tutto ciò, si aggiunge un tipo di recitazione anch’ esso nuovo rispetto agli schemi del teatro lirico ottocentesco, basato su un puntiglioso studio della realtà e straordinariamente accurato nella ricerca dei costumi e delle truccature. Due esempi tra i più significativi sono quelli di Gemma Bellincioni che, studiando la parte di Natalia ne La Martire di Spiro Samara, si era consultata con dei medici per riprodurre esattamente le espressioni e i gesti che sono propri dell’ agonia di una persona suicidatasi mediante inalazione di gas proveniente da una stufa a carbone, e quello del celebre baritono Titta Ruffo che, nella sua autobiografia, racconta di aver ricavato i gesti e le mosse della parte di Tonio in Pagliacci studiando le mosse di un minorato mentale nel quale si era casualmente imbattuto.
La musica esprimeva questi scontri tra i personaggi con inflessioni vocali desunte direttamente dal linguaggio parlato e con un tipo di canto in cui l’ orchestra procede a volte intervenendo direttamente nel discorso melodico, che non viene più lasciato alla voce, con gli strumenti a commentare o a raddoppiare la linea del canto, ma equamente suddiviso tra essa e l’ accompagnamento orchestrale. Da queste basi nascono le diverse soluzioni stilistiche adottate dagli operisti italiani dell’ epoca, i cui risultati migliori sono dati da quel canto di conversazione del quale fu maestro assoluto Puccini.
Per quanto riguarda Andrea Chénier, esso è il prodotto di una successiva fase del verismo: il periodo in cui, esauritasi per ovvia estinzione la fase dei soggetti rusticani, i musicisti ricominciano a prendere in considerazione, alla ricerca di nuove strade, le trame di stampo storicheggiante. Anche qui, però, essi trasferirono le istanze che erano state alla base dei lavori immediatamente precedenti, cosicché abbiamo opere come lo Chénier, dramma storico, ma basato su una figura reale: quella del poeta Andrè Chénier, nato a Costantinopoli il 30 ottobre 1762, membro, dopo la Rivoluzione, del “club dei Feuillants”, nell’ambito del quale assunse una posizione sempre più critica verso il Comitato di Salute Pubblica, che governava in Francia durante il Terrore, fino ad essere arrestato e ghigliottinato, a Parigi, il 25 luglio 1794, solo tre giorni prima dell’ analoga fine di Robespierre.
Tra l’ altro, nel libretto di Illica sono presenti anche altri personaggi realmente esistiti in quel periodo: Jean Antoine Roucher, amico di vecchia data di Chénier e giustiziato con lui lo stesso giorno, il pubblico accusatore del Tribunale Rivoluzionario, Fouquier Tinville, anche lui giustiziato nel 1795 e il presidente del Tribunale, Dumas, amico di Robespierre e ghigliottinatoinsieme a lui, Saint-Just e Couthon.
Illica trasse la sua documentazione storica dalla Histoire de la sociéte francaise pendant la Revolution, di Edmond e Jules Goncourt, stampata a Parigi nel 1854, nonché da un dramma di Jules Barbier e da un romanzo di Joseph Méry. Due tra le arie del protagonistasono parafrasi di poesie del vero Chénier: l’ Improvviso del primo atto, rielaborazione del Hymne à la Justice e Comme un Dernier Rayon, che fornisce lo spunto per l’ aria del quarto atto.
Nel libretto i casi del poeta, prima rivoluzionario e poi proscritto da Robespierre, di Maddalena e del cittadino Gérard sono tratteggiati con una tecnica nell’ accavallarsi dei colpi di scena, che mira veramente a non lasciare al pubblico un attimo di respiro, secondo un incalzare di eventi che si potrebbe apparentare a certo tipo di cinema (e sarebbero tutti da studiare i modi che il cinema, questo moderno sostituto dell’ opera come spettacolo di massa e fenomeno di costume, ha preso a prestito dal melodramma e da quello verista in particolare). La musica accetta la sfida librettistica alla caccia dell’ effetto, momento per momento, e la capacità di Giordano di tenere il discorso sempre in tensione e di catturare l’ attenzione del pubblico tramite la melodia trascinante piazzata al momento giusto, ottiene perfettamente l’ obiettivo di tratteggiare un discorso teatrale sempre vario serrato e avvincente. In realtà, la Rivoluzione, vista in fondo con gli occhi di una persona moderata la quale pensa che queste cose non stanno mica bene,funziona solo come elemento catalizzante per far scattare le situazioni passionali in cui il piedistallo storico serve a moltiplicarne l’effetto sullo spettatore.
Quando il gioco è realizzato con la misura e l’ abilità che Giordano dimostra nello Chénier, il gioco riesce. Togliete però questo equilibrio delicato a conseguirsi e come risultato avrete le concioni clamorose di opere come Il Piccolo Marat di Mascagni, per citare un altro lavoro ambientato nella Rivoluzione Francese. Notevole è anche l’abilità con cui il compositore muove le fila del discorso e maneggia gli schemi, ottenendo il risultato di variare molto bene procedimenti che, in realtà, si somigliano tutti (guardate da vicino le arie solistiche dell’ opera e vi accorgerete che sono, più o meno, tutte costruite nella stessa forma: una prima parte in stile raccolto e legato, e una perorazione finale che porta la voce a toccare le note più alte, a volte concludendo, come nella romanza di Maddalena, con una frase in prima ottava). Anche il trattamento delle scene di massa, in particolare quella della festa al primo atto e quella del tribunale, rivela in Giordano un musicista dalla mano sicura e soprattutto molto abile nel servire al pubblico esattamente quello che si aspetta in quel determinato momento. E, di fronte a queste situazioni, come ha scritto ancora Gavazzeni, “cadono gli strumenti della critica e si alzano, luminose, le ragioni del cuore”. Si può anche discutere su questa affermazione, ma non condannare un’ opera che, piaccia o no, fa ormai parte del nostro immaginario collettivo. D’ altra parte, i cantanti hanno sempre amato i ruoli principali del lavoro, e i nomi di Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Aureliano Pertile, Francesco Merli, Mario Del Monaco, Franco Corelli, Placido Domingo tra i tenori e di Titta Ruffo, Carlo Galeffi, Gino Bechi, Aldo Protti, Ettore Bastianini, Piero Cappuccilli, tanto per citare alla rinfusa e non dimenticando Maria Caniglia, Maria Callas e Renata Tebaldi tra i soprani (interpretazioni tutte, integralmente o in parte, consegnate al disco) stanno a testimonianza del favore ininterrotto che, nei confronti di Andrea Chénier, accomuna da sempre pubblico ed esecutori.