Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2010 / 2011
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Rigoletto FRANCO VASSALLO
Gilda IRINA LUNGU
Il duca di Mantova GIANLUCA TERRANOVA
Sparafucile ANDREA PAPI
Maddalena LAURA BRIOLI
Giovanna LETIZIA DEL MAGRO
Il conte di Monterone ZIYAN ATFEH
Marullo MARCO CAMASTRA
Matteo Borsa ANTONIO FELTRACCO
Il conte di Ceprano FRANCESCO MUSINU
La contessa di Ceprano IVANA CRAVERO
Un usciere RICCARDO MATTIOTTO
Il paggio della duchessa SABRINA AMÈ
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Patrick Fournillier
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia e luci Fabio Banfo
Scene Luca Ghiradossi
Costumi Valentina Caspani
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 27 aprile 2011
Per caratterizzare la stagione dei 150 anni dell’unità d’Italia, il Regio di Torino ha scelto di lasciare, proprio nei mesi focali delle celebrazioni, grande spazio ai titoli verdiani, presenti, al di là dei Vespri siciliani di marzo, con la ripresa della Traviata che inaugurò la stagione 2009-2010 e con questo nuovo allestimento del Rigoletto; tralascio il Nabucco in formato ridotto per le scuole, dato che non ritengo che semplificare un capolavoro sia un’operazione dignitosa né efficace per attirare nuovo pubblico all’opera. L’idea del concentrato di «sempreVerdi» (per citare il motto che il teatro, ispirandosi al critico Alberto Mattioli, ha associato alla stagione in corso) ha buona ragion d’essere, dato che Verdi, al di là del “patriottismo” per lo più attribuito a posteriori a tanti suoi titoli, fu indubbiamente il musicista più rappresentativo degli anni del Risorgimento. Tuttavia, perché l’operazione abbia davvero senso, sarebbe auspicabile caratterizzare ogni produzione con almeno un elemento di unicità che la ponga al centro dell’attenzione nazionale e internazionale, e non solo dell’interesse dei melomani torinesi (i quali, occorre dirlo, non si sono tirati indietro, decretando il tutto esaurito a tappeto); e, se I Vespri hanno saputo, nel bene e nel male, calamitare su di sé molta attenzione, altrettanto non sembra potersi dire dei due titoli della “trilogia popolare”.
La novità di questo Rigoletto è stato il metodo d’assegnazione della regia: è stato bandito un concorso aperto a tutti per presentare un progetto registico, e, tra le 165 proposte pervenute, una commissione ha scelto il vincitore. Alla proclamazione del progetto vincente ha fatto seguito, come da buona regola nei concorsi italiani, uno strascico di polemiche da parte degli sconfitti circa la trasparenza delle procedure di valutazione, alimentato dalla decisione del teatro di non rendere pubblica la graduatoria dei progetti. Alla prova dei fatti, l’allestimento funziona, con le sue scenografie semplici e i suoi costumi tradizionali, ed assolve alla funzione d’essere uno spettacolo popolare, facilmente intellegibile, economico e comodamente trasportabile (verrà riproposto nei teatri piemontesi e su palcoscenici estivi all’aperto). Peccato per alcuni dettagli, come la sostituzione del sacco in cui dev’essere chiusa Gilda, cui Verdi teneva moltissimo, con una cassapanca; o l’horror vacui che spinge il regista a mettere in scena uno stupro durante il preludio, che andrebbe ascoltato a sipario chiuso per creare contrasto con l’allegra luminosità della festa; o la scelta insensata di fare un solo intervallo. Altri dettagli per fortuna sfuggono a chi non abbia letto le note di regia, come i vestiti in lana anziché in velluto e raso per «evocare il freddo che … spira in un luogo di morte», che hanno il solo effetto di scatenare l’ilarità degli spettatori che se ne accorgono. Insomma, l’allestimento premiato funziona, ma resta il dubbio che le maestranze interne del teatro, o un qualsiasi workshop universitario, potessero fare anche meglio.
Protagonista vocale è stato il baritono Franco Vassallo, il cui stile di canto, spremuto e tormentato, incanta alcuni e delude altri. A mio parere il personaggio di Rigoletto, non certo campione di limpidezza e nobili sentimenti, ne risulta dipinto in maniera compiuta: la chiusa del II atto, con quel “saprà” rauco e sgraziato, è vera interpretazione del personaggio deforme assalito dalla smania di vendetta; di quel personaggio deforme che era già emerso quando ha sostituito la messa di voce sul «Voi congiuraste» con una inattesa virata timbrica. Il soprano Irina Lungu si è fin troppo calata, nel I atto, nella figura ingenua della giovane Gilda, cui ha dato corpo con la piccola voce e poca scaltrezza nel canto di coloratura, che è risultato un po’ fine a se stesso; decisamente più drammaturgicamente efficace è stata nei restanti due atti la raffigurazione della maturazione psicologica della figlia di Rigoletto, fino a giungere ad un finale nel quale l’emozione è stata palpabile. Una maturazione di natura interpretativa si è invece riscontrata paragonando l’approccio che il tenore Gianluca Terranova ha avuto al ruolo del Duca alla prova generale del 9 aprile con quello della recita del 27: alla generale, tentando di scurire la propria voce “alla Domingo”, Terranova rovinava i colori generando un effetto monocromo e sforzato. Alla recita, invece, il tenore ha esibito il proprio naturale timbro donizettiano, ed il personaggio ne è risultato sbalzato con realismo psicologico nel suo contrasto tra fugace infatuazione (l’aria del II atto, in cui sono state elargite morbidezza e rotondità) e disprezzo per le donne («La donna è mobile», letta con una spigliatezza quasi sfacciata). Tra le voci gravi, si è distinto Ziyan Atfeh nella parte di Monterone, cui ha conferito quella terribile potenza che il pur breve ruolo del padre ferito nell’onore ma capace di segnare il destino di tutti deve avere. Il basso Andrea Papi, come Sparafucile, è parso al confronto un po’ logoro, anche se in grado di raggiungere e tenere le note più profonde del registro. Laura Brioli non è un mezzosoprano adatto al ruolo di Maddalena, che, per quanto sinistra sia, deve pur sempre sfoggiare un timbro seducente e non una voce da maliarda. Ciò tuttavia che ha impedito che si percepisse la sensazione di uno spettacolo riuscito è stata la mancanza di una direzione carismatica: Patrick Fournillier si è decisamente comportato da routinier. I tempi erano talvolta troppo accelerati (si pensi al «culto, famiglia, patria» spedito come se fosse una marcetta); e spesso si è avuta l’impressione che, proprio in un’opera come Rigoletto (nella quale Verdi scioglie la rigidità dei numeri chiusi in funzione della drammaturgia, dando pari dignità drammaturgica a cantabili e dialoghi minuti), i momenti di transizione siano stati trascurati: per fare un esempio, il duettino tra Sparafucile e Rigoletto, nodo focale della vicenda, è stato trattato alla pari di un recitativo insignificante. Questo vuol dire non saper mettere in luce la novità drammaturgica del Rigoletto.
Buone notizie della seconda compagnia, ascoltata in occasione della sua prova generale aperta, il 10 aprile. Damiano Salerno, nel ruolo del protagonista, ha forse una voce un po’ acuta, da tenore brunito più che da baritono, ma ciò non lo danneggia nella capacità di esprimere l’intensità del sentimento paterno che prepotentemente emerge nelle ultime frasi di «Cortigiani», sorretto com’è da uno strumento stabile e una solida tecnica, apprezzata fin dalle magistrali messe di voce sul «Voi congiuraste» nella prima scena. Barbara Bargnesi ha una voce calda e corposa, che conferisce luminosità alle colorature di Gilda; Ivan Magrì non cerca di scurire la propria voce naturale di tenore leggero, conferendo al Duca una leggerezza psicologica a lui appropriata ed un aspetto, per nulla fuori luogo, di tenore antagonista rossiniano. La Maddalena di Claudia Marchi è umbratile ma sciolta e non cavernosa, credibile nel suo ruolo di abbindolatrice. E il direttore Ramon Tebar dirige con un’attenzione che gli avrebbe certamente meritato il ruolo di direttore musicale dell’intera produzione.