Palermo, Teatro Massimo:”The Greek Passion”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2010 / 2011
“THE GREEK PASSION”

Opera in 4 atti dal romanzo “Cristo di nuovo in croce” di Nikos Kazantzakis
Musica e libretto di Bohuslav Martinů
Prima rappresentazione in Italia
Padre Grigoris MARK S.DOSS
Archon MARKUS HOLLOP
Il Capitano PHILIPPE JOLL
Il Maestro BRUNO LAZZARETTI
Padre Ladas, Commentator ELIAS SCHILTON
Kostandis NICOLO’ CERIANI
Dimitri GIOVANNI LO RE
Manolios SERGEY NAYDA
Yannakos JAN VACIK
Michelis MARTIN  ŠREJMA
Panait CRISTIANO OLIVIERI
Andonis ALBERTO PROFETA
Nicolio MARCO FRUSONI
Lenio BEATRIZ DIAZ
La vedova Katarina JUDITH HOWARTH
Padre Fotis LUIZ-OTTAVIO FARIA
Despino VERONICA LIMA
Una vecchia PINUCCIA PASSARELLO
Il Capitano JEREMY MILNER
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Asher Fisch
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Carletti
Nuovo allestimento
Palermo, 5 maggio 2011
A pochi giorni dalla fine della Pasqua, The Greek Passion di Bohuslav Martinů – in prima italiana nel nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo – affronta tematiche straordinariamente attuali. La composizione risale alla metà del secolo scorso (l’opera fu ultimata nel 1957), la prima rappresentazione al 1961: eppure l’impressione che se ne ricava è di vicinanza, di estrema contemporaneità, anche se il mondo che viene rappresentato risulta apparentemente distante ed estraneo. Prescindendo quindi dalle specificità dell’allestimento (affidato alla regia di Damiano Michieletto e alla scenografia di Paolo Fantin) tali caratteristiche sono già insite all’interno dell’opera, qui proposta nella versione originale del 1957, inizialmente destinata alle scene londinesi e poi recuperata in tempi recenti dal musicologo ceco Aleš Březina.
La fonte letteraria è il romanzo di Nikos Kazantzakis Cristo di nuovo in croce, pubblicato in greco nel 1948; dall’edizione del 1954 Martinů ricavò la sua opera in quattro atti, occupandosi anche della stesura del libretto e scegliendo la lingua inglese. Rispetto al testo di Kazantzakis il musicista effettuò un’opera di condensazione che giunse a sacrificare alcuni episodi, in modo da centrare l’attenzione “su un atto principale, cioè la trasformazione di Manoliòs successiva alla sua designazione per il ruolo di Cristo” (lettera di Martinů a Kazantzakis del 14 ottobre 1954). Nel descrivere il quieto vivere degli abitanti di Lycovrisi, impegnati a scegliere i ruoli per la drammatizzazione della Passione di Cristo, e la loro improvvisa “messa in discussione” causata dall’arrivo di un gruppo di profughi perseguitati dai Turchi, Martinů rappresenta “passioni” mistiche e concrete, organizzate intorno a temi fondamentali: il labile confine fra realtà e finzione, il problema etico dell’accoglienza e della pietas, lo scontro di potere e la sua estraneità alla sfera religiosa.
Ad apertura di sipario ci troviamo di fronte ad una struttura rotante articolata su più livelli (“un’architettura sociale” la definisce Fantin) con un piano terreno quasi sempre occupato dagli anziani del villaggio. Quest’ultimi parlano di “un mondo perfetto”, un vero paradiso, ma l’idea che regista e scenografo riescono a trasmettere è quella invece di un vero inferno, quasi un insieme di bolge dantesche che sovverte la tradizionale gerarchia: in basso i capi, in alto i più umili, il resto del popolo. Nei piani superiori si muovono infatti la prostituta Katerina e il protagonista, il pastore Manoliòs, che per la mitezza viene designato ad interpretare Cristo. Manoliòs è sostanzialmente un emarginato, un puro di cuore che “vede fantasmi” e che per certi versi ci ricorda il Parsifal di Wagner. La sua investitura da parte degli anziani coincide con la discesa e con l’entrata in scena di un fanciullo/angelo – intelligente trovata di Damiano Michieletto – al quale se ne aggiungono via via degli altri, popolando il palcoscenico nei momenti-chiave della partitura (soprattutto nel corso degli intermezzi strumentali e in particolare nel III Atto, quando sono gli angeli stessi a togliere a Manòlios la veste nera e a sostituirla con una candida maglia).
Il paradiso del villaggio è invaso e violentemente contaminato dall’arrivo dei profughi. Essi presentano le tipiche caratteristiche del popolo esule ed entrano in scena cantando un salmo (“Oh my Lord, save the people”) cui fa seguito il Kyrie eleison. È a partire da questo episodio che emerge con chiarezza la qualità “corale” dell’opera, prova decisamente impegnativa per i membri del coro del Teatro Massimo (preparato da Andrea Faidutti), ma affrontata con sicurezza e senza particolari segni di stanchezza. Allo stesso tempo da questo momento si avverte la stridente contrapposizione fra il profilo innovativo e insieme arcaico del linguaggio musicale – puntellato di richiami ad inni e canti della tradizione slava e bizantina, di indubbia suggestione – e certe caratteristiche dell’allestimento, inutilmente moderne e fini a se stesse: in particolare la presenza dei trolley e la benedizione con la bottiglia di plastica, effettuata dalla guida dei profughi, papás Fotis, nel campo di accoglienza alla fine del II Atto. Anche i costumi di Silvia Aymonino sono apparsi piuttosto scialbi e poco aderenti alla complessità drammaturgica del lavoro di Martinů.
Ad eccezione però di questi dettagli, nel suo complesso l’allestimento è risultato abbastanza convincente e ha sostenuto un cast valido e sontuoso, davvero ricco di voci interessanti. A far la parte del leone i due capi spirituali, i bassi-baritoni Mark S. Doss e Luis-Ottavio Faria (rispettivamente papás Grigòris e papás Fotis) assolutamente autorevoli sia sul piano vocale che su quello interpretativo. La loro prova ha costituito il punto più alto – ma forse dovremmo dire il più profondo – di una carrellata di personaggi tutti maschili, fra cui segnaliamo Jeremy Milner (impegnato nel doppio ruolo del Capitano/profugo, distintosi per le convincenti qualità attoriali), il corposo basso Markus Hollop (Archon), Elias Schilton (il vecchio Ladàs ma anche il commentatore, figura straniante ed efficace che Martinů introdusse come novità rispetto al romanzo) e il sicuro Yannakòs di Jan Vacik. Vero tour de force quello del protagonista Manoliòs, il tenore Sergey Nayda, che nonostante qualche sbavatura ha saputo fronteggiare le non poche difficoltà della partitura.
L’omogeneità timbrica e sostanzialmente scura della compagine vocale ha incontrato efficaci momenti di rischiaramento negli episodi affidati ai pochissimi personaggi femminili: rischiaramento sensuale quello offerto da Leniò (il soprano Beatriz Diaz), ottima interprete della “passione terrena” rappresentata dall’incontro con il pastore Nikolio (il tenore Marco Frusoni) e dall’allegra scena del matrimonio (inizio del IV Atto); rischiaramento materno quello di Katerina – una Judith Howarth stranamente discontinua, a volte bravissima altre volte sotto tono – per la quale “tutti gli uomini sono Dio, almeno per un minuto”; rischiaramento brevissimo ma di grande pathos quello affidato a Veronica Lima, alias Despinio, che con intensità ha dato corpo all’episodio forse più toccante ed espressivo dell’intera opera.
Molto attenta la direzione di Asher Fisch, costretto a maneggiare un materiale musicale davvero insidioso, che affianca pagine di raffinatezza timbrica (dove vengono isolati alcuni strumenti dalle sonorità diafane, come l’oboe o l’arpa, o l’orchestra si riduce ad un quartetto d’archi, come accade in un passaggio alla fine del III Atto) a momenti intenzionalmente banali, con ritmi di valzer spesso affidati ad una fisarmonica in scena (a questa si aggiungono violino e clarinetto nella scena della nozze fra Leniò e Nikolio). È quindi la ricchezza di organico a colpire l’attenzione, per la varietà di strumenti che vengono utilizzati, dalle campane udite in lontananza al suggestivo flauto di Nikolio, anch’esso suonato sul palcoscenico, simbolo di una natura al tempo stesso semplice e peccaminosa.
L’opera si chiude con la dolente trenodia sul corpo di Manoliòs che nell’interpretazione del regista viene “resuscitato” dal delicato tocco di un angelo, sancendo così la totale immedesimazione con la figura di Cristo, mentre intorno risplendono decine di candele: ultimo residuo di una speranza che ancora, nonostante tutto, riesce a sostenere un popolo perseguitato ed in inesausto cammino.
Foto Franco Lannino – Archivio Teatro Massimo