Roma, Teatro dell’Opera, Stagione Lirica 2010 / 2011
“NABUCODONOSOR”
Dramma lirico in quattro parti su libretto di per musica in tre atti
su libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco LEO NUCCI
Ismaele ANTONIO POLI
Zaccaria DMITRY BELOSELSKY
Abigaille CSILLA BOROSS
Fenena ANNA MALAVASI
Il Gran Sacerdote di Belo GORAN JURIC
Abdallo SAVERIO FIORE
Anna ERIKA GRIMALDI
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Riccardo Muti
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia e scene Jean-Paul Scarpitta
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Urs Schönebaum
Nuovo allestimento del Teatro dell’ Opera di Roma
Roma, 19 marzo 2o11
Il trionfo della retorica per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia ha coinvolto in questi giorni lo spettacolo andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma. Il Nabucco di Giuseppe Verdi, opera risorgimentale per eccellenza, è stato infatti programmato per l’occasione dal teatro capitolino nell’ambito dei festeggiamenti per il compleanno del nostro paese. In Nabucco c’è molta retorica, ma ci sono anche pagine molto ispirate che fanno già presagire il Verdi più maturo: marcette e ritmi bandistici si alternano a momenti strumentali più raffinati e oasi vocali di intenso lirismo (come l’aria di Abigaille “Anch’io dischiuso un giorno” o il duetto del III atto tra Nabucco e la presunta figlia o come il finale dell’opera con la stessa Abigaille morente).
La rappresentazione del 19 marzo scorso al Teatro dell’Opera di Roma ha esaltato il massimo della retoricità di questa partitura: il Maestro Riccardo Muti ha diretto in modo ineccepibile, per non dire perfettamente, il giovanile lavoro verdiano costringendo l’Orchestra a sonorità possenti, ma mai eccessive, o piegandola a momenti di intensa pateticità, culmine la stupenda esecuzione dell’arcinoto Coro degli Ebrei “Va pensiero”.
Tuttavia la serata non ha fatto emergere nessun nuovo spunto di lettura della partitura: la direzione del Maestro, nella sua “perfezione” è apparsa quasi un’ edonistica autocontemplazione forse un tantino autoreferenziale. Di questa idea dello spettacolo si è resa complice l’assenza di una regia vera e propria (è pur vero che il regista Jean Paul Scarpitta ha avuto dei problemi di salute durante le prove, ma appare difficile pensare che la concezione dello spettacolo sarebbe stata profondamente diversa). La scena è vuota, ci sono dei pannelli mobili che non evocano il senso di claustrofobia che forse volevano ricordare. Una pioggia di detriti al primo e al quarto atto, proiezioni di alberi o costruzioni assire sullo sfondo non trasmettono sensazioni di particolare emozione; l’assenza di movimenti o avanzamenti di massa verso il proscenio per il Coro, i solisti lasciati alla loro iniziativa personale e in taluni casi l’eccessivo istrionismo del protagonista Leo Nucci hanno portato a risultati veramente ridicoli; rubare il seggio ad Abigaille con aria da bambino impertinente o gli sguardi da buffo di opera comica che lo stesso baritono ha creato per nulla si addicono alla regalità della mente offesa del sovrano babilonese. A ciò aggiungasi un inefficace utilizzo delle luci, curate da Urs Schönebaum, che a volte si accendevano in modo inappropriato e comunque in nessun caso potevano coadiuvare l’assenza della regia. Viceversa i costumi di Maurizio Millenotti apparivano di una elegante sobrietà.
Dal punto di vista strettamente vocale, il protagonista Leo Nucci alla veneranda età (ovviamente per un cantante d’opera!) di sessantanove anni regge ancora la scena, ma la voce è ormai usurata: i centri e gli acuti oscillano vistosamente come nell’aria “Dio di Giuda”; il timbro si è fatto più nasaleggiante e resta pertanto solo il suo carisma scenico, a parte gli ecceessi di cui sopra che, a volte, hanno creato più una “maschera” che un vero personaggio: peccato per chi lo ricorda nei suoi passati trascorsi verdiani e nello stesso ultimo suo Nabucco qui a Roma di una decina di anni fa.
Il soprano ungherese Csilla Boross, pur con qualche appannamento nelle zone gravi del registro, riesce a delineare un’Abigaille credibile scenicamente, potente, abile fraseggiatrice ed interprete soprattutto nelle parti più liriche dell’opera, come la già citata aria “Anch’io dischiuso un giorno” e nel finale eseguito con grande partecipazione emotiva. Inoltre viene anche a capo egregiamente delle parti più difficili del suo ruolo, come l’impervio salto di ottava a “O fatal sdegno” nel recitativo della predetta aria o nella temutissima cabaletta “Salgo già del trono aurato” che la cantante affronta con piglio deciso e vocalità d’acciaio.
Il giovane basso ucraino Dmitry Beloselskiy dona accento nobilmente patetico al pontefice Zaccaria, ruolo veramente difficile nella sua impervia tessitura: il cantante, più un basso cantabile che basso profondo, riesce a commuoverci nella preghiera del secondo atto e ci regala accenti ieratici nella profezia dove, tuttavia, si avverte qualche difficoltà nella zona grave. Prestazione comunque di livello veramente alto. Il tenore Antonio Poli è forse un po’ troppo leggero per la parte di Ismaele, avendo una voce forse più adatta al repertorio mozartiano: in alcuni punti veniva un po’ coperto dall’orchestra, come nei suoi interventi durante l’invettiva del coro del secondo atto “Il maledetto non ha fratelli”. Il mezzosoprano Anna Malavasi, di elegante figura scenica, ha cantato dignitosamente la parte di Fenena. Buoni i personaggi minori con particolare menzione per l’Anna di Erika Grimaldi. Il Coro, in un’opera in cui è molto forte la sua presenza ha cantato veramente molto bene, diretto dal Maestro Roberto Gabbiani.
Nel complesso, forse, in forma di concerto si sarebbe apprezzata meglio l’esecuzione offertaci in questa serata, soprattutto se paragonata all’altro evento verdiano, anch’esso legato alla festa dell’Unità d’Italia, proposto dal Teatro Regio di Torino, “I vespri siciliani”. L’opera, che è stata trasmessa anche in questo caso dalla televisione, era veramente in diretta e non in quella strana differita come per il Nabucco: anche se attualizzata nell’ambientazione e con alcune licenze che potrebbero apparire arbitrarie ha suscitato sicuramente più emozioni nello spettatore grazie a una regia particolarmente curata e innovativa di Davide Livermore. Un modo diverso per fare gli auguri alla nostra Nazione! Peccato che il Teatro dell’Opera di Roma non abbia voluto osare di più…