Cari amici, questo mese vorrei proporvi il ricordo dell’interpretazione che ha dato Maria Callas de Il Pirata di Vincenzo Bellini. Dopo L’Armida del Maggio Musicale e, soprattutto la Bolena della Scala un’altra operazione che nasceva attorno alla Callas e nella Callas si riassumeva. Le voci maschili allora in circolazione non disponevano affatto della preparazione per affrontare i personaggi di Gualtiero ed Ernesto. Può bastare l’abbaglio di affidare una parte, quella di Gualtiero, scritta per Giovan Battista Rubini, a due tenori lirico-spinti come Franco Corelli e Pier Miranda Ferraro.
Nessuno nega il valore dell’impresa, ma come potevano due voci formate per essere tenori stentorei con uno stile fortemente segnato dal Verismo, piegarsi al canto astrale di Rubini? Oggi sappiamo che era impossibile. La scelta però non fu casuale, ché la tessitura di Gualtiero insiste spesso nella regione centrale salvo inarcarsi verso l’acuto e concedersi passi di coloratura. Questi ultimi vennero tagliati, le puntature addomesticate e risolte di forza. La prima fu affrontata con un canto muscoloso che non era certo quello dei bari-tenori rossiniani dalla cui pianta rampollava la vocalità di Gualtiero. Analoga osservazione si può avanzare per la parte di Ernesto che Bellini non scrisse per un baritono, tipologia non in uso, nella produzione seria di quegli anni, ma per un basso-baritono o, meglio ancora per un basso cantante come Antonio Tamburini. Da una simile situazione nacque una prospettiva stravolta che incentrò il Pirata sulla figura di Imogene, mentre Ernesto e Gualtiero venivano messi in ombra. L’impostazione di quella lettura del Pirata contribuì all’equivoco – solo oggi superato – che il Belcanto fosse un problema femminile. Così nel II Atto dell’opera finiva per contare la grande scena di Imogene, mentre l’altra, quella della morte di Gualtiero, restava nell’ombra dal momento che il valore di Corelli e di Pier Miranda Ferraro non corrispondeva alla lettera della partitura.Il pubblico di allora non se ne accorse e possiamo dire che di fatto non se ne accorse o non volle rivelarlo anche la critica, che parve soddisfatta della scelta di simili tenori per il ruolo di Rubini. E’ un’osservazione che possiamo fare noi a posteriori che abbiamo ascoltato il Pirata in versioni integrali più attendibili.
Maria Callas cantò il Pirata due volte: alla Scala di Milano e alla Carnegie Hall di New York.
Non esiste alcuna registrazione della memorabile esecuzione scaligera. La lacuna costituisce uno dei misteri del collezionismo del dopoguerra. Il vuoto ci priva della possibilità di un confronto, ma è grave soprattutto per Franco Corelli, del cui Gualtiero non rimane alcuna documentazione. La parte di Imogene fu scritta per Henriette Méric-Lalande che, a giudicare anche dalla vocalità di Alaide (La Straniera) e di Lucrezia Borgia (Lucrezia Borgia), composte per lei, dovette essere un ottimo esempio di quello che in gergo è stato chiamato soprano drammatico d’agilità. La Callas ha le competenze per affrontare una vocalità come quella di Imogene: allucinata e visionaria. Contribuisce a renderla tale la voce del soprano Greco che nel primo semestre del 1959 aveva contorni spigolosi ed un registro acuto, che a piena voce risultava tagliente. Nelle note tenute si avvertiva un certo vibrato che, amministrato ad arte, che conferiva fascino alla nota stessa e alla frase. Imogene si presenta nella Scena Quarta del I Atto e la Callas entra subito in “medias res”. Il sol, tenuto lungamente, ci mette di fronte ad una nobildonna da cui tutti attendono soccorso. Il Recitativo è condotto con piglio imperioso, con suono forte, persino tagliente, fino a “Spento”. La Callas muta tono e la sua voce si vela di cupo spavento. Vorrei sottolineare che tutta la lettura della parte di Imogene è condotta all’insegna di una sorta di determinata cupezza che ne fa un personaggio segnato. La prima parte della Cavatina è fraseggiata con un tono allucinato, come di intimo e profondo terrore. Questo tono si volge all’elegia quando la frase, da parlante si fa più melodica, “era sorda la natura”. Non si insisterà mai abbastanza sul talento della Callas di cercare nella sua gamma colori diversi per i differenti momenti di una stessa pagina. In fondo il suo segreto è tutto qui. Nella seconda strofa l’allucinazione si fa ancora più orribile. LA tessitura centro grave, l’andamento discendente delle quartine permettono alla Callas di mettere a frutto il colore scuro del suo medium, ma trovano anche una voce adatta al passaggio e all’evidente drammaticità del momento. L’apertura melodica la vede pronta a creare l’elegia nella quale il dolore di Imogene si sublima. Il si bemolle è fortemente vibrato. Sarà così per tutte le note acute di questa performance, ma con buona pace dei puristi il difetto di fonazione si volge in pregio, perché dà al canto un che di lancinante. La Caballetta, “Sventurata, anch’io deliro”, è eseguita una sola volta. La coda, assai fiorita, è alleggerita. E’ innegabile però che la Callas abbia il talento di trovare sempre il giusto colore e di sapere dare alla coloratura una forte espressività. Arriviamo così al duetto Imogene-Gualtiero. Il Recitativo, sempre importante in Bellini, è scolpito ad arte con momenti di particolare intensità, per es. “Hai tu sull’onde”. Il tempo d’attacco, un passo dialogato, è eseguito senza soverchia preoccupazione. Non tutto è a fuoco: le quartine di “D’Ernesto” o la scala cromatica che porta la voce grave su “ancor”. Nel tempo di mezzo la Callas si fa valere con un accento di straziante implorazione risoltà con sonorità piene e robuste, vigorosi accenti ed estremi acuti ghermiti di slancio. La Stretta, “non è la tua bell’anima”, è condotta sulla falsariga di quanto abbiamo ascoltato finora. Forse una pagina siffatta, andrebbe trattata con piglio certo più elegiaco, ma è innegabile che la Callas e Pier Miranda Ferraro non manchino di fare effetto. Passiamo ora al II Atto, dopo aver osservato, che la Callas non ha tralasciato di imporsi nel Concertato e di dare alla Stretta, “Ah!partiamo i miei tormenti”, un brivido disperato che ancora una volta mette in luce la natura di questo personaggio segnato dalla fatalità.
Si arriva così al Duetto Ernesto-Imogene del II Atto: “Tu m’apristi in cor ferita”: La scrittura è per un basso cantante abile nella coloratura come Tamburini. Ego spiana ed alleggerisce e purtroppo lo imita anche la Callas. E’ un esempio di quella che può essere definita una coscienza belcantistica ancora debole. Il problema non consiste in qualche roulades soppressa, ma nel travisamento di uno stile che dovrebbe essere improntato ad una minore virulenza, ad un accento meno teso che nel canto del baritono si colora persino di verismo. La Callas recupera, quando attacca “Io l’amo è vero” e ritrova accenti più mediati. Il tempo di mezzo, “Ah, lo veggo: per sempre m’è tolta”, patisce di nuove alterazioni. Ego non può eseguire i passi melismatici. La Callas deve fare tutto da sola, ma la seconda parte della pagina, là dove la coloratura si infittisce, è tagliata. Si arriva alla Stretta, “Ah! Fuggi, spietato,” anch’essa eseguita con abbondanti tagli. La Callas si impone per l’accento di disperata desolazione, ma la pagina è travolta. Rescigno non si tira indietro. Il pubblico delira, ma credo che quello che si ascolta sia assai distante dalla verità della lettera. La questione si ripropone nel Duetto Gualtiero-Imogene, nel successivo Terzetto Imogene-Gualtiero-Ernesto e poi nell’aria di Gualtiero. Nel Duetto Imogene trova momenti di ripiegato lirismo “Taci:rimorsi amari”, intonato con dolci accenti. Ci fa ascoltare quello che dovrebbe essere il clima della pagina e la sua scrittura, dal momento che il suo Gualtiero ha dovuto cedere le armi di fronte alla coloratura di “vieni: cherchiam pe’ mari”.Il problema inquina anche “Cedo al destin orribile”. La vocalità prevede un raffinato rincorrersi di volate nelle quali si incastrano le tre voci e, se non bastasse, la conclusione vuole una lunga cadenza del basso cantante e del tenore. Non si ascolta nulla di tutto questo. Prima che attacchi la Stretta, la Callas si fa valere nella roulade che conduce la voce al si naturale con un accento che qui conviene alla situazione.
La Callas ha scelto di andare verso una lettura di forte concentrazione drammatica.A differenza dei suoi partners, il soprano greco può dominare la scrittura, sa che cosa sia il belcanto, si presenta con le carte in regola pre affrontare il canto fiorito. Se ci concentriamo sulla grande scena che conclude l’opera, vedremo che è la scrittura di Bellini a spingerla verso questi esiti. Il Recitativo è intonato con grande scolpitura e le tinte sono sposate alle parole. “sera” e “sepolta” hanno i colori della morte. Il re bemolle di “sepolta” è cercato nel petto. L’Andante “Ei parla…” è improntato alla più viva espressività ottenuta con suoni corposi, vocali nette, un fraseggio frastagliato, ma all’occasione con un intenso lirismo. Così “deh tu innocente” è cantato con un ripiegato abbandono e il do grave che lo conclude non è più cercato nel petto come il precedente re. L’esecuzione di questa frase è un eccellente esempio di come debba essere interpretato un “a piacere” di uno spartito di belcanto. Esso è un invito ad un ritmo libero che , senza squadrare la musica e senza nulla concedere al gratuito virtuosismo, deve esprimere le ragioni del cuore. Nelle strofe di “Col sorriso d’innocenza” la Callas coglie due aspetti fondamentali della pagina: i melismi che fioriscono la melodia hanno lo scopo di amplificare il pathos e portare la voce al climax, segnato da due la bemolli acuti. La chiarezza sintattica del canto della Callas è un’ulteriore dimostrazione di quanto la cantante fosse in grado di penetrare la drammaturgia e di indicare nelle puntature l’apice del dramma emotivo di Imogene. La stessa oscillazione della nota (di per sé un difetto, indice che il sostegno diaframmatico della Callas non era più saldo come un tempo) è utilizzata per dare alla nota stessa una più interna vibrazione. La vocalità della Caballetta, “Oh! Sole ti leva”, è in stile grande agitato. E’ il canto di sbalzo di ascendenza neoclassica che le ricche fioriture rendono meno marmoreo e più panneggiato. La Callas lo affronta di slancio, ma con un’intelligenza che dimostra quanto nel’59 ella sapesse che le Cabalette, se eseguite integralmente devono essere variate. Lo si può notare in tutte le incisioni segnalate: a New York, ma anche nei tre concerti della tarda primavera. Nell’esposizione i do gravi di “tenebra fonda” sono cercati. Si crea così un singolare contrasto tra il la acuto di “vela”, tagliente come una lama d’acciaio, e l’arcano mistero della regione grave. Inutile dire che i due suoni, il la e il do fungono da significante per indicare lo stato d’animo in cui si dibatte Imogene, Non c’e’ bisogno che lo spettatore abbia rudimenti di retorica. Chiunque intuisce che la morte è evocata da questi suoni tanto diversi eppure tanto affini. Nella ripetizione, tutto il passaggio è risolto diversamente e la variazione dà alla pagina un tono, o meglio, un’ombreggiatura più lirica, più raccolta.