Dopo il ricordo del personaggio di Violetta del mese scorso, questa volta ho analizzato il personaggio dell’infelice regina Anna Bolena.
Il 1957 fu per Maria Callas un anno intensissimo. Dopo una tournée negli stati Uniti a gennaio, a febbraio il soprano era già a Londra per Norma. Il critico del “Times” scrisse: “ Nessuno al mondo può cantare con altrettanta potenza ed intensità”.
A quell’epoca circolava un epiteto famoso. Maria era definita “La tigre dell’opera”. A marzo si trattenne a Milano per ben tre mesi dove, alla Scala, doveva interpretare “Sonnambula”, “Ifigenia in Tauride” ed “Anna Bolena”. Tutte e tre le opere per la regia di Luchino Visconti. Dopo 127 anni l’opera di Donizetti, Anna Bolena, appunto, tornava da un lungo sonno.
Scrisse il marito nel suo volume: “Nonostante tentasse di nasconderlo, era emozionatissima. Amava il pubblico milanese. All’inizio dell’opera le accoglienze furono freddine. Ma poi il ghiaccio si ruppe e ci pensò Maria a scaldare l’atmosfera trascinando tutti, amici e nemici, in un delirio di applausi. Fu un trionfo!”
Anche se la Callas interpretò, tra il 1957 ed il 1958, solo dodici volte il ruolo dell’infelice moglie di Enrico VIII, resta, questa interpretazione, una delle sue più rigorose. Vi era una sorta di identificazione fortissima con la tragedia di Anna come donna ferita ed offesa. Ma, mentre in altri ruoli, il conflitto, la malinconia ed il sacrificio erano sublimati in un modo del tutto personale, qui la Callas capiva che si andava oltre la sfera personale, poiché il personaggio era una donna giudicata dalla storia.
Per questo il soprano voleva conferire maggiore forza e specificità. Dunque tra l’aprile ed il maggio 1957, in ben sette recite, vestì i panni dell’eroina consacrata alla storia, accanto a Giulietta Simionato, a Nicola Rossi Lemeni, a Gianni Raimondi, per la regia di Luchino Visconti e la direzione di Gianandrea Gavazzeni.
Le critiche furono entusiastiche e Rodolfo Celletti, per primo, sulla rivista “La maschera” scriverà:” Nell’anno 1957, nel più completo squallore di ciò che concerne il vocalismo, siamo testimoni auricolari di qualcosa che sul piano tecnico ed anche sul piano estetico è semplicemente prodigioso. Credo di intendermene un poco: l’esecuzione di agilità a mezza voce nel pieno della gamma acuta, senza la minima smagliatura di vibrazione o impurità di suono e di intonazione è per una cantante la pietra filosofale o giù di lì. Magia. Ebbene così ha cantato la Callas per un atto intero”.
Gli fa eco Teodoro Celli che su “Oggi” così sentenzia: “Non ha mai cantato forse con tanta intensità,procurando un’emozione che non sapremmo ridire in parole. Quando l’interpretazione tocca un così alto livello è illusorio parlare di “bella voce” o di “brutta voce”. Si rischia di restare fuori dall’arte , irretiti da un’avvilente concezione edonistica del canto. Scopo e meta unica dell’arte e l’espressione, tale è lo scopo della musica. Teniamo per conto, dunque, che la voce di Maria Callas non è né bella né brutta. Ma diviene incomparabilmente espressiva quando è applicata ad un genere vocale e ad un dramma musicale che le si addice. E diviene, dunque, assolutamente bella: dell’unica bellezza che in arte è concepibile”.
A questa acuta disanima della voce di Maria Callas si affianca il giudizio di Massimo Mila che su l’Espresso del 21/4/57 scrive “Ha modulato “Al dolce guidami castel natio” con ineguagliabile perizia di mezzi toni, alla Benedetti Michelangeli ed ha concluso in trionfo un’interpretazione tutta nobile e prestigiosa”.
E’ tutto un coro di elogi e complimenti. Così continua Fedele D’Amico su “Il contemporaneo”: “Che la Callas fosse naturalmente nella sua parte era chiaro a priori. Ancora una volta così i suoi accenti iracondi come le sue confessioni a mezza voce sussurrate “ au confessional du coeur” furono quelli di una cantante che rimane una delle più folgoranti apparizioni del teatro moderno. Avevamo oscuramente immaginato che la presenza della Pasta e della Malibran significassero questo. Ma solo la Callas che ne ha definitivamente accertati”.
Al coro di elogi nazionali si associa un bel giudizio del critico-musicologo inglese Desmond Shawe-Taylor che su “Opera” sostiene: “La presenza di Maria Callas nella compagnia ha recentemente incoraggiato una politica scaligera particolarmente avventurosa, poiché è una delle poche cantanti con la voce, la tecnica, lo stile e la forza drammatica necessarie per conferire a queste tragedie la loro legittima potenza teatrale. E’ principalmente grazie alla Callas se L’Anna Bolena è stata trionfalmente resuscitata. Potrebbe l’Anna Bolena entrare nel repertorio internazionale? Con la Callas sì. Senza di lei, o qualche altro soprano a lei affine, di cui per ora non vi è segno, no”.
In realtà solo negli anni ’80 si cimenteranno in quest’opera importanti voci della lirica mondiale con interpretazioni dignitosissime e risultanti confacenti, senza mai raggiungere , tuttavia, i vertici della “Divina”. Si voglia ricordare almeno una celebre terna: Montserrat Caballé, Katia Ricciarelli, Cecilia Gasdia.
La cantante greca riprenderà, sempre al Teatro alla Scala, l’anno seguente, il 1958, per cinque recite il ruolo dell’infelice regina. C’è da dire che Maria aveva paura perché le recite dell’aprile 1958 venivano dopo la Norma contestata di Roma del mese di gennaio. Ed in effetti Eugenio Gara scriverà su L’Europeo: “ In un’atmosfera di paurosa tensione e di gelo ha superato se stessa. Ha alternato , in ascesa continua, fraseggio per fraseggio, modulazioni dolcissime a rapidi scatti, preghiere ardenti e furiose invettive. C’è ora nella voce della Callas una mestizia nuova, una patetica soavità d’ispirazione proprio donizettiana. I suoi “pianissimo”, i suoi trasalimenti improvvisi, i suoi interrogativi arcani, ci hanno procurato il godimento di un’arte assolutamente superiore. E’ forse stata la recita più bella della Callas, ma anche quella che ha lasciato il segno, dentro. E poiché di interpreti della sua statura il teatro lirico ha molto bisogno e per molto tempo non chiederemmo la replica”.
E’ giusto che in un coro così unanime di consensi convinti citiamo l’unica voce contraria dello storico suo detrattore Beniamino Dal Fabbro che su “Il Giorno” così inveisce. “I reggitori della Scala dovranno liberare l’esecuzione di Anna Bolena e definitivamente il palcoscenico del nostro teatro da Maria Meneghini Callas, la quale fa del gigionismo filodrammatico accanto a veri artisti di canto di egregia scuola e di indiscussi meriti vocali. Ella riduce a stagnanti lamentele a mezza voce la pagine di grazia lirica, trasforma in vociferazioni inconsulte le pagine di espressioni romantiche esagitate, corrompe il gusto del pubblico”.
Nel luglio del 1958, dopo questa ennesima filippica contro il soprano greco, la Callas querelò il succitato critico per diffamazione, salvo ricevere un diniego, nel febbraio 1959, dal Tribunale di Milano poiché il fatto non costituiva reato. Chiudiamo con le illuminanti parole di Eugenio Montale che , su “La Notte” del 10 aprile 1958 sancirà l’indiscusso successo ottenuto dalla Callas. “Il maggiore interesse della serata di ieri era rappresentato dalla ricomparsa in scena alla Scala di Maria Callas dopo una lunga parentesi della “querelle” che , veramente, ha interessato più la cronaca mondana che le ragioni dell’arte. Ella ha pienamente confermato il successo dell’anno precedente. Alla figura diAnna la Callas conferisce il pregio di una continua presenza in palcoscenico, di una autorità che solo pochissimi artisti del teatro lirico hanno avuta. Se poi a questo dono, frutto di questo istinto, si aggiungeo un’arte di mezza voce ed un’accentuazione drammatica, robusta, penetrante, incisiva, si dovrà convenire che quest’artista, sempre nuova, sempre diversa, può riserbarci ancora molte sorprese”.