Milano, Teatro alla Scala: “I due Foscari”

Teatro Alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2008/2009
“I DUE FOSCARI”
Tragedia lirica in tre atti. Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Francesco Foscari  MARCO DI FELICE
Jacopo Foscari  FABIO SARTORI
Lucrezia Contarini  MANON FEUBEL
Jacopo Loredano  MARCO SPOTTI
Barbarigo LUCA CASALIN
Pisana  ALISA ZINOVJEVA
Fante  RAMTIN GHAZAVI
Servo  EERNESTO PANARIELLO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore : Stefano Ranzani
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia di Cesare Lievi
Scene e costumi di Maurizio Balò – Luci di Luigi Saccomandi
Allestimento del Teatro alla Scala 2003.
Teatro alla Scala, 4 aprile 2009
L’ultima recita  de I due Foscari alla Scala di Milano va in scena  in un teatro gremito di persone come per ogni titolo verdiano che si rispetti.  Sesta opera del maestro di Busseto composta nel 1844, I Due Foscari hanno ritrovato una loro seppur discreta collocazione nei cartelloni teatrali italiani negli ultimi cinquant’anni anni, partendo dall’ allestimento di Venezia del 1957 con Serafin e la Gencer  passando per  le produzioni scaligere con Gavazzeni e Muti.  Un’ opera  perfettamente in linea con le produzioni verdiane coeve, in cui l’influenza donizettiana , il forte senso teatrale e drammatico, e la sensibile vena  melodica dell’autore, riuscivano a rivitalizzare anche un dramma come questo,  in cui se escludiamo il finale , poco o niente accade di rilevante, a livello drammaturgico e narrativo, per tutto il resto della vicenda.  Si odono dalla partitura delle sonorità e degli elementi  di scrittura orchestrale che nettamente ricalcano e preannunciano alcune scelte musicali successive ; vedi alcune chiusure di frase di flauti e clarinetti(Macbeth),   una più approfondita delineazione psicologica dei personaggi (che scaturisce ad esempio dall’uso marcato di motivi di reminiscenza) , e in generale  da un’intenzione (che talvolta si palesa talvolta rimane solo tale) di costruire un opera  musicale che allude  al patriottismo popolare meno spiccatamente rispetto ai lavori precedenti, non ultimo  per l’assenza di situazioni narrative interessanti  in tal senso.
La poca originalità della trama non è stata per nulla compensata dalle scelte registiche effettuate in questa produzione.  Un allestimento scenico elegante ma scarno e a lungo andare anche monotono, che nell’assecondare la piattezza narrativa del dramma non aiutava a darne una lettura più vibrante scenicamente, e drammaticamente caratterizzante.  L’apparato scenico , che rispettava a grandi linee l’epoca  storica di riferimento, era costituito da elementi posti obliquamente rispetto al pubblico; grandi cornici dorate rettangolari  posizionate sulla parete di fondo, una scalinata centrale presente nel secondo atto, lo scorcio di una nave che preannuncia l’esilio di Jacopo, e poco altro. Costumi  in linea con il gusto dell’epoca: dorati, violacei per il consiglio dei dieci e in generale dalle tinte chiare ma poco sgargianti. L’atmosfera creata era  generalmente  cupa e statica, priva di una caratterizzazione  registica precisa e innovativa, a nostro avviso necessaria anche nel solco della tradizione registica. Di maniera la recitazione dei cantanti, molto tradizionale, a tratti anche imbarazzante nel ricreare un’ ordinaria scena d’amore e d’addio, con i personaggi che si scambiano dolci frasi a metri di distanza (vedi il duetto fra Lucrezia e Jacopo del secondo atto) o che ricevono un abbraccio dal padre sono nelle parole, senza una giustificazione registicamente valida. Anche il momento più coinvolgente come il finale ultimo, con il doge rimasto sempre seduto sul trono ducale , non aiutava a catalizzare l’attenzione visiva del pubblico sull’ intensità drammatica della situazione.
Per quanto concerne la parte prettamente musicale dispiace dirlo, e anche rammarica tenuto conto del prestigio del  Teatro in questione,  ma si aveva l’impressione di assistere ad una recita di provincia. Le uniche note positive sono da registrarsi nella prova del coro e di Marco Spotti nella pur limitata parte di Loredano. Per il resto la direzione di Stefano Ranzani, che indossa la maglia numero tre di concertatore e direttore,  dopo Carlo Montanaro e Nello Santi, appare lenta e priva di piglio energico ,anche nei momenti più concitati come il finale, a volte troppo inerte nell’evidenziare i dettagli espressivi nei preludi (vedi gli  assoli strumentali), e in generale poco in sintonia con i cantanti e le loro caratteristiche vocali. A questo proposito si sono registrati, ed è incredibile che queste cose accadano alla Scala, dei momenti  davvero sconcertanti, in cui  taluni non andavano a tempo o sbagliavano attacchi come nella cadenza alla fine del quartetto, e altri, come il concertato del finale secondo, in cui il soprano e baritono faticavano vistosamente a seguire il tempo scelto dal direttore.
Arrivando al settore cantanti la situazione non migliora. Marco di Felice ha una voce corposa e sonora, ma un timbro monocorde che a tratti ricordava quello di Roberto Frontali  (nella Traviata scaligera di due anni orsono ad esempio) per piattezza cromatica e di accento. Affronta la parte senza difficoltà palesi, e,  tentando di delineare la figura del padre frustrato e impotente, ne ottiene  un risultato anonimo e poco credibile date le carenze vocali appena esposte. Un’interpretazione che non si risolleva nemmeno nel finale, compromesso anche da un declino della prestazione vocale alla fine dell’aria .
Fabio Sartori, tenore già poco apprezzato in passato da chi scrive, si è mostrato qui senza deludere le aspettative (in negativo). Una prova, la sua, incolore. Voce non particolarmente bella, ma potente, un fraseggio eccessivamente laconico e per nulla originale, accompagnano una dizione poco  chiara: veramente svilente che ciò accada in un tenore italiano.Taciamo sulla presenza scenica davvero troppo ingombrante, poco credibile e per nulla compensata da uno strumento  vocale valido.
Deludente anche la prova di Manon Feubel, soprano lirico spinto il cui unico pregio rimane l’accento efficace e una certa mobilità nel fraseggio. Per il resto  una voce che inizialmente oscilla alquanto, e che poi si rivela poco precisa nelle agilità di forza e a tratti sguaiata negli acuti. Per la presenza scenica un pò meglio del suo collega , ma a fronte della situazione in cui versava vocalmente , alla fine la resa complessiva rimaneva comunque bassa.
Degni di nota il Barbarigo di Luca Casalin, e la Pisana di Alisa Zinovjeva.Una considerazione in ultimo; è davvero triste assistere a spettacoli del genere che danno  l’idea della poca considerazione artistica verso opere cosiddette minori come questa, ma a mio modo di vedere comunque interessanti e coinvolgenti anche verso il grande pubblico, che ha ad ogni modo tributato un discreto successo alla serata. Una prova come quella appena descritta è, per ciò che ci riguarda, indegna del teatro di cui porta il nome, e fa  purtroppo intuire  che queste riprese di allestimenti passati siano talvolta  accompagnate da un numero davvero esiguo di prove. ( Fotografie di Marco Brescia, Archivio Fotografico del Teatro alla Scala)