“… mentre il basso fondamentale delle opere di Verdi è un grido di battaglia, quello di Puccini è un invito all’amplesso”. Così scrive Mosco Carner il più autorevole biografo di Giacomo Puccini. Il commento è forte e farà certamente trasalire qualche “Verdiano DOC”, ma non v’è dubbio che Puccini è stato un formidabile ritrattista di personaggi femminili; il cui pathos risulta, di volta in volta, in grado di coinvolgere il pubblico in maniera più convincente dei rispettivi “patners” maschili. La sensualità unita ad una graffiante umanità sono il binomio dei profili delle eroine pucciniane, che non furono mai manichini ma figure estremamente vive e dinamiche, spesso, in parte anche autobiografiche. Giacomo Puccini nacque in Versilia il 22 dicembre 1858, in un’antica famiglia di musicisti. Il padre Michele, morto prematuramente nel 1864, era maestro di cappella de Duomo di Lucca, come lo furono buona parte dei suoi avi. Alla sua morte tale incarico fu trasferito provvisoriamente all’allievo prediletto, Fortunato Magi, con la clausola di cedere tale incarico a Giacomo non appena fosse stato possibile. Il destino del piccolo era, in parte, già segnato: la musica! Si trattò, pertanto, del proseguimento dell’arte famigliare e non il caso del genio coltivato nell’arido terreno, come spesso si è voluto romanzare. La madre, Albina, è donna piuttosto autoritaria, ma schietta, in forza si crede alla condizione di vedovanza, con sei figli da sfamare e uno in arrivo, quel Michele unico fratello di Giacomo. Ovvio, che i primi insegnamenti musicali, Puccini, li apprendesse dal Magi, cantando anche nel coro di voci bianche del Duomo. Successivamente fu iscritto all’Istituto Musicale di Lucca, dove i suoi progressi furono così prolifici e rapidi, che tutte le chiese del territorio se lo contendevano quale organista. Agli uffici religiosi egli alternava impegni di carattere più mondano, intrattenendo il pubblico elegante dei locali alla moda: suonava al pianoforte raffinate rielaborazioni dei motivi delle opere più in voga. L’opera avrebbe segnato la sua vita fin da quel 1876 quando si recò, a piedi, a Pisa per ascoltare Aida di Verdi. L’impressione ricevuta fu enorme tanto da imprimere alle sue aspirazioni la spinta verso il teatro lirico.
Il suo primo lavoro, la Messa a quattro voci (la quale in parte ricomparirà nella successiva Manon), composta nel 1880 rivela già una consistente tecnica compositiva unita ad un’originale freschezza inventiva. Ottenuta una borsa di studio, tramite supplica alla Regina Margherita, e un aiuto finanziario dal prozio materno, Puccini si reca a Milano per completare gli studi musicali presso il Conservatorio. Erano quelle le nuove sedi di studi musicali, poiché il giovane Stato Italiano vi aveva trasferito le competenze che prima spettavano agli svariati maestri di cappella d’istituzione e tradizione religiosa. A Milano ebbe come insegnanti: Antonio Bazzini ed Amilcare Ponchielli, che tanto contarono sulla sua formazione scolastica. Il primo compositore e violinista (tanto ammirato da Paganini e Schubert) era un esponente della scuola strumentale italiana, il secondo, col quale Puccini strinse forti legami d’amicizia, operista di tradizione ottocentesca ma ancora inebriato dal successo de La Gioconda opera al tempo tra le più rivoluzionarie in bilico fra tradizione italiana e grand-opéra francese. Era consuetudine del conservatorio che gli allievi si congedassero con una loro composizione.
Puccini, che già da qualche tempo schizzava appunti musicali, presentò nel luglio 1883 Capriccio Sinfonico, il quale destò molto scalpore nell’ambiente musicale milanese; tanto che il critico Filippo Filippi ebbe a scrivere: “In Puccini c’è un deciso e rarissimo temperamento specialmente sinfonista. Unità di stile, personalità, carattere”. Le premesse per successivi traguardi c’erano tutte, e Puccini, incoraggiato anche dal suo maestro Ponchielli, voleva tentare il concorso indetto da Sonzogno per un’opera in un atto. Il Ponchielli interpellò il poeta Ferdinando Fontana che in breve tempo fornì al Puccini la stesura per Le Villi.
Quest’opera fu composta di getto a Lucca, e presentata nella sua versione autografa al concorso, tale da rendersi illeggibile anche per Ponchielli, il quale era in commissione, e non poté sostenere il suo allievo. Nell’ambiente musicale si continuava a parlare del giovane autore del Capriccio tanto lodato dal Filippi, allorché il Fontana (che era anche giornalista molto apprezzato) riuscì a radunare in uno dei tanti salotti alla moda alcuni nomi importanti: il direttore Franco Faccio, il compositore Alfredo Catalani, il poeta e compositore Arrigo Boito (i cui legami con Ricordi erano strettissimi) e molti altri. Puccini suonò per intero la sua opera, il risultato fu un’immediata colletta per la prima rappresentazione che avvenne al Teatro Dal Verme il 31 maggio 1884. Ricordi stampò gratuitamente il libretto. L’ottimo successo fu sicuramente insolito per un esordiente. Ricordi, con abile fiuto, acquisì i diritti dell’opera e commissionò al binomio Puccini-Fontana un nuovo melodramma. Le critiche lusinghiere non mancarono di porre l’accento sull’elemento sinfonico dell’opera, o meglio, sulla ricchezza di colori orchestrali dalle moderne armonie acustiche. Argomento che verrà sempre ampiamente dibattuto in tutti i lavori pucciniani.
Edgar, la seconda opera di Puccini va in scena al Teatro alla Scala la sera del 21 aprile 1889: l’esito fu uno stiracchiato successo di stima. Le ragioni di quest’opaca riuscita furono molteplici. In primi la fonte, una sconnessa vicenda sviluppata in un arzigogolato libretto; poi fatti personali del compositore, i quali influenzeranno anche l’estro artistico. Poco dopo il successo delle Villi, muore la madre, una figura di riferimento ed esemplare per Puccini; ed inizia la vorticosa e travagliata relazione con Elvira Botturi (poi diverrà sua moglie) la quale fugge dalla toscana con i due figli avuti dal marito, ed in grembo quello di Puccini, raggiungendo questi a Milano. Il fatto non passò inosservato in molti ambienti milanesi! L’animo di Puccini era dunque allo stremo e l’unica persona che credeva lui, mettendosi tutti contro, fu l’editore Ricordi. Questi continuò a corrispondere il mensile a Puccini, e nel frattempo si era preoccupato di fornirgli un nuovo canovaccio: Manon Lescaut, dramma di Prevost. Scelta azzardata e curiosa, visto che da circa sei anni trionfava in tutta Europa l’omonima opera composta dal francese Massenet. Lunghissima e travagliata fu la gestazione del libretto, cui collaborarono infinite persone, tra queste: Illica e Giacosa, i quali con Puccini strinsero ottimi rapporti d’amicizia e professionali, e gli stessi Ricordi e Puccini. Tra vari ripensamenti, indecisioni, incoraggiamenti (a Cernobbio Francesco Paolo Tosti applaudì entusiasticamente alla lettura del libretto) si giunge al debutto fissato per i 1° febbraio 1893 al Teatro Regio di Torino. Ricordi aveva opportunamente evitato la Scala, dove il successivo 9 febbraio sarebbe “nato” il Falstaff verdiano. Fu un trionfo! La critica unanime tributava a Puccini gli onori che meritava collocandolo sull’onda del successo dalla quale non sarebbe mai sceso. Difficile e complesso sarebbe tentare di quantificare quanto verismo ci sia nella musica di Puccini. In effetti, egli non si aggrappò mai a nessuna corrente, restando sostanzialmente “svizzero”, ma adoperò in piccole dosi ora la scapigliatura, ora il verismo, ma sempre nel suo stile che può per buoni versi definirsi strettamente personale, appunto Pucciniano, caratterizzato da un’attenta, minuta ed artificiosa melodia musicale. I proventi del successo consentirono a Puccini di acquistare la Villa di Torre del Lago (oggi Museo Puccini), che sarà per sempre il suo rifugio personale. Arrigo Boito, quando seppe che Puccini aveva puntato gli occhi sul romanzo Scènes de la vie de Bohème di Murger, tentò di tutto per farlo recedere da quel progetto per indirizzarlo verso un soggetto più ampio, più importante, più consono al palcoscenico. Tentativo vano! Puccini fece elaborare ai Giacosa & Illica il libretto di una vicenda statica, offrendoci così un commuovente spaccato di vita povera, ma ricca di sentimenti, che avrà per titolo La Bohème. Anche in questo caso non mancarono indecisioni, ripensamenti, litigi (con il Giacosa, poi appianati); emerse anche in quest’occasione tutta la complessità del comporre pucciniano. L’opera debuttò al Regio di Torino il 1 febbraio 1896 con esito sì favorevole, ma non entusiasmante, come per Manon; dirigeva Arturo Toscanini. Con il succedersi delle repliche, La Bohème, prese un successo sempre più crescente. Il trionfo culminò con l’eccellente performance canora, che offrirono Adelina Sthele e Edoardo Garbin, qualche mese più tardi a Palermo. Da allora è forse una delle opere più rappresentata nel mondo. Puccini si mise nuovamente al lavoro su un progetto che aveva accantonato ma non abbandonato: il dramma Tosca di Victorien Sardou. Ottenuta, al secondo tentativo, l’autorizzazione da parte dell’autore, Puccini nel musicare quest’opera incontrò le più ingarbugliate difficoltà nei rapporti e con i librettisti e con l’editore. A Giacosa non piaceva il soggetto e Ricordi non concordava con il finale. Doveroso ricordare che Puccini s’interessò a Tosca dopo averne visto una rappresentazione in francese, lingua che non conosceva affatto, a Milano con la mitica Sarah Bernhardt, la quale non gli piacque per la sua recitazione iperrealistica ma sicuramente catalizzante. Ci troviamo in pieno periodo “verista” sia teatrale sia musicale, dal quale Puccini attingerà sempre con discrezione, ma va rilevato quanto sia diversa l’eroina di Puccini da quella di Sardou. Puccini volle essere molto scrupoloso e documentato sui particolari, in effetti, l’opera si svolge in tre luoghi storici e ben definiti di Roma. Da un prete volle sapere quale nota dava il campanile di S. Pietro, quali preghiere far dire ad una parte del coro e l’esatta versione del rituale romano per il Te Deum. Le parole dello stornello, su commissione di Puccini, appartengono a Giggi Zanazzo fondatore del celebre “Rugantino” che scrisse questa simpatica quartina in romanesco. Tosca andò inscena il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma, ma era già pronta per la metà del 1899, furono problemi organizzativi a spostarla nel nuovo secolo. L’attesa per questa nuova opera era febbricitante e a Roma per la prima si riunì tutto il mondo musicale italiano, e non solo, pare ci fosse anche Gustav Mahler (al quale l’opera non piacque) oltre, ovviamente, alle istituzioni capeggiate dalla Regina Margherita. L’accoglienza del pubblico e della critica non fu entusiastica, si parlò di scarsa originalità nella melodia e di sadismo (scena della tortura). In effetti, Puccini in Tosca compie un mutamento compositivo radicale rispetto ai precedenti lavori, percorrendo la strada delle descrizioni brucianti, delle scene violente, degli scontri all’ultimo sangue, risultando anche biecamente verista in alcuni passi del II atto dove egli accetta enfasi, urla ed esagitazione frenetica. Non bisogna commettere l’errore di considerare Tosca opera del puro verismo, poiché in Puccini, è sempre presente la vena romantica, anche nei passi più infocati, i quali sono sempre sviluppati a piccole dosi. Se, con il trionfo di Manon Lescaut, si può intravedere il passaggio del testimone, della tradizione operistica italiana, tra Verdi e Puccini (dopo sette giorni Verdi presenta l’ultima sua opera Falstaff); con Tosca, che segna il ‘900, Puccini getta nuove basi di linguaggio musicale senza mai scordare la sua vera vena romantica. Se da un lato il compositore si rese interprete di varie correnti ideologiche ed emotive che il suo raro fiuto seppe utilizzare e fondere con abilità attingendo soprattutto da colleghi francesi, dall’altro, bisogna riconoscergli che ogni risorsa espressiva è calata senza trucchi all’interno di un’anima latina, sensuale ed appassionata nella disperazione e nella gioia, bisognosa di espandersi in un canto melodico determinato dall’istinto e dalla naturalezza.