Milano, Teatro Alla Scala, Stagione Lirica 2017/18
“DON PASQUALE”
Dramma buffo in tre atti. Libretto di Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti.
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale AMBROGIO MAESTRI
Norina ROSA FEOLA
Ernesto RENÉ BARBERA
Malatesta MATTIA OLIVIERI
Un Notaro ANDREA PORTA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Davide Livermore e Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Nicolas Bovey
Video Video Design D-wok
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 17 aprile 2018
Prende sempre più piede l’usanza di assistere all’Opera trasmessa al cinema, magari in diretta da irraggiungibili teatri oltreoceano. E se il Cinema andasse in scena a teatro? Succede alla Scala con la nuova produzione di “Don Pasquale” affidata a Davide Livermore, le cui regie – come sappiamo – non è raro che vadano a costruirsi attorno al linguaggio della Settima Arte. Pensiamo al suo debutto scaligero con il Tamerlano dello scorso anno (un omaggio al cinema russo Anni Venti/Trenta tra Ėjzenštejn e l’Anna Karenina di Clarence Brown) o al Ciro in Babilonia in cartellone al ROF 2012 con i suoi espliciti richiami al cinema muto nel primo Novecento. Ed è così che le vicende di Don Pasquale ambientate nella Roma d’inizio XIX secolo vengono proiettate (letteralmente!) in avanti nella Roma della Dolce Vita, in pieno Neorealismo. Il richiamo è evidente sin dall’overture durante la quale Livermore riesce con intelligenza a riciclare procedimenti propri del linguaggio cinematografico per proporre la propria lettura della psiche di Don Pasquale, “girando” un antefatto inedito. Il sipario si apre sul funerale della madre, quando tramite tulle neri si crea una sorta di close-up sul protagonista che tramite flashback rivive la sua vita a partire dall’infanzia. Scopriamo che la madre, ossessiva, glaciale e oppressiva, gli ha sempre impedito di avere relazioni e una famiglia propria, unico motivo per cui il figlio desidererebbe una moglie in così tarda età. Ma l’anziana donna non smetterà di perseguitarlo nemmeno dopo la morte, riproponendosi nel corso dell’opera fluttuando di tanto in tanto sul palcoscenico e deridendolo continuamente dal ritratto animato in salotto mentre Don Pasquale vede andare a monte anche quest’ultimo tentativo di matrimonio. Livermore individua nella commedia all’italiana cinematografica del dopoguerra il prolungamento naturale del dramma buffo operistico, in una perfetta intersezione tra comico e drammatico raccontata allora sul grande schermo con un generale sentimento di ottimismo e joie de vivre intrisi al contempo di inguaribile malinconia. Quest’atmosfera, collocata in quell’epoca precisa, è resa perfettamente dalle impattanti scene monocromatiche firmate insieme allo studio Giò Forma, animate dalle proiezioni video studiate da D-Wok e impreziosite soprattutto dagli elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, che con estrema cura nella scelta dei tessuti e dei dettagli di ogni abito in scena ci fa immergere totalmente in quegli anni. Vediamo Roma nelle sue diverse facce. Lo splendore dei suoi monumenti ripresi dall’alto, la Stazione Termini, le viste mozzafiato sul Cupolone, le giostre abbandonate sull’Appia Antica, le porte di Cinecittà, la casa di Don Pasquale che sembra la fusione tra una dimora borghese e il Teatro Marcello, il tutto circondato da impalcature: non è chiaro se si tratti di una Roma in fase di costruzione o decadenza, un ulteriore richiamo al mood luccicante e al contempo cupo che qui si vuole raccontare.
Non mancano omaggi, letterali e non, al nostro grande cinema: l’Aurelia B24 che vola magicamente su Roma con Norina alla guida (“Il sorpasso” di Dino Risi), la vespa di “Vacanze Romane” che trasporta figuranti vestiti da centurioni a Cinecittà, un Malatesta in cui possiamo intravedere Walter Chiari alias Alberto Annovazzi in “Bellissima” di Visconti, la felliniana scena in stazione che ci rimanda a “I Vitelloni” e ancor più letteralmente a “La Dolce Vita”, con quel clown che si allontana sconsolato trascinando grandi palloncini bianchi e neri, e via dicendo. Insomma, così tanta carne al fuoco che ancora ce ne sarebbe da dire. Tuttavia, uno spettacolo così ricco di riferimenti, citazioni, movimenti, effetti speciali – pur di altissima qualità stilistica e culturale – ha il difetto non irrilevante di ingombrare anche troppo, dando l’impressione di un horror vacui estremo che rischia di far perdere totalmente il fuoco sulla genialità musicale della partitura, inghiottendo lo spettatore in un vortice di suggestioni visive. Ed è un peccato in tal senso vedere come il sopraffino lavoro dell’Orchestra del Teatro Alla Scala guidata da Riccardo Chailly resti a tratti schiacciato sotto le esigenze di un’azione scenica di fatto prepotente che spesso nell’articolarsi ostacola, rallenta o infierisce sull’incedere della partitura. Nonostante ciò, la concertazione di questo Don Pasquale – eseguita nell’insolita versione della partitura autografa di Rattalino, assente in Scala da vent’anni – gode della trasparenza garantita da un corpo orchestrale sfoltito senza perdere di intensità dinamica o ricchezza di colore. La scelta dei tempi tende ad essere sostenuta, a tratti eccessivamente: su tutti citiamo l’esempio della serenata nella quale qualche indugio ulteriore avrebbe sicuramente fatto guadagnare in dolcezza. Ne risulta una lettura briosa e incalzante, che non annoia mai, pur senza dimenticare quel taglio nostalgico e introspettivo che alternandosi al buffo incarna la forza della partitura e scolpisce l’essenza del protagonista. Ambrogio Maestri, Falstaff contemporaneo per eccellenza, non può che vestire con disinvoltura ed esperienza anche i panni di quest’altro anziano personaggio in bilico, appunto, tra malinconia e commedia. Un Don Pasquale di presenza e vocalità imponenti ma al contempo leggero, esilarante e a tratti commovente, forte di un sapiente fraseggio e grande freschezza scenica. Memorabili, spassosi e ben cantati gli scambi con Malatesta, a partire dal cantabile nel primo atto (“Ah, un fuoco insolito”) per arrivare al gustosissimo “Cheti, cheti immantinente” nell’ultimo. Rosa Feola – già acclamata protagonista scaligera nella Gazza Ladra, precedente titolo belcantistico sempre affidato a Chailly – ancora una volta non delude le aspettative regalandoci un’elegante Norina di rara espressività vocale e scenica. Sensuale e ammiccante al punto giusto senza scadere nel macchiettistico, il soprano lirico tiene in pugno il ruolo con la giusta dose di malizia ma senza manierismi, un equilibrio solitamente difficile da mantenere. Piacevolissima scoperta è lo squillante Ernesto di René Barbera. Se il timbro non è tra i più preziosi in circolazione, l’estrema musicalità e la totale disinvoltura nelle puntature in acuto – infinito e cristallino il Mi Bemolle che chiude la cabaletta “E se fia che ad altro oggetto” – rendono la sua interpretazione non solo tecnicamente sorprendente, ma anche ricca di interessanti sfumature per varietà di fraseggio e dosaggio sempre delicato dei suoni. Ne è un perfetto esempio l’etereo notturno che intreccia con Feola nell’ultimo atto. Brillante Mattia Olivieri nei panni di Malatesta. Il giovane baritono seduce sin dal “Bella siccome un angelo” per vocalità scura ed elegante linea di canto, nonché per carismatica presenza scenica e disinvoltura attoriale (qualità particolarmente significative in questa produzione considerato l’oneroso impegno richiesto dalla regia in tal senso). Ottimo infine anche il Notaro di Andrea Porta. Come sempre eccellenti gli interventi del Coro diretto da Bruno Casoni, con una menzione speciale per il pulsante e coinvolgente “Che interminabile andirivieni!” che illumina l’atto terzo. Al calar del sipario il pubblico ha salutato con entusiasmo tutti i protagonisti, con dieci minuti di applausi a suggello di un meritato successo per una produzione innegabilmente di altissimo livello.