Prima assoluta di “La ciudad de las mentiras” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2016-2017
“LA CIUDAD DE LAS MENTIRAS”
Teatro musicale in quindici scene su libretto e collaborazione musicale di Matthias Rebstock
basato sui racconti Un sueño realizado, El álbum, La novia robada, El infierno tan temido di Juan Carlos Onetti
Musica Elena Mendoza
Gracia KATIA GUEDES
Carmen ANNE LANDA
Moncha ANNA SPINA
Donna di Un sueño realizado LAIA FALCÓN
Doctor Díaz Grey GRAHAM VALENTINE
Risso DAVID LUQUE
Jorge MICHAEL PFLUMM
Tito, Cameriere TOBIAS DUTSCHKE
Langman GUILLERMO ANZORENA
Pianoforte (Abitante di Santa María) ÍÑIGO GINER MIRANDA
Clarinetto (Abitante di Santa María) MIGUEL PÉREZ IÑESTA
Sassofono (Abitante di Santa María) MARTÍN POSEGGA
Trombone (Abitante di Santa María) MATTHIAS JANN
Violoncello (Abitante di Santa María) ERIK BORGIR
Violino (Abitante di Santa María) WOJCIECH GARBOWSKI
Orquesta Titular del Teatro Real
Direttore Titus Engel
Regia Matthias Rebstock
Collaborazione alla regia Elena Mendoza
Scene Bettina Meyer
Costumi Sabine Hilscher
Luci Urs Schönebaum
Prima esecuzione assoluta
Produzione del Teatro Real di Madrid, dedicata alla memoria di Gerard Mortier
Madrid, 24 febbraio 2017

Nel titolo ci saranno anche le bugie (mentiras) ma nella definizione “teatro musical en quince escenas” è una prova di onestà e di verità artistica. Elena Mendoza, la giovane compositrice sivigliana a cui Gerard Mortier commissionò anni fa una novità per il Teatro Real, e il librettista e regista Matthias Rebstock, non hanno voluto ricorrere all’impegnativa definizione “ópera”, ma hanno preferito scegliere l’espressione sotto la quale si possa comprendere ogni forma di spettacolo che congiunge recitazione ed esecuzione musicale. Nella Ciudad de las mentiras protagonista è senza dubbio la musica, non però il canto; protagonisti sono gli strumenti, non però l’orchestra; protagonisti gli attori, più che i cantanti. È interessante come agli albori del XXI secolo il teatro musicale riesca a proporre forme di ritorno al “recitar (anche) cantando” del XVII secolo, dato che l’entità più rilevante in questo tipo di teatro è il testo letterario alla base della recitazione. Il testo e i suoi intrecci, non soltanto come occasione drammaturgica, ma come scaturigine del teatro stesso, delle sue forme e del suo divenire. La vicenda principale è quella di un’anonima signora che vuole vedere realizzato in teatro un sogno in cui si sentiva particolarmente felice; per rivivere quel sogno attorniata da comparse e figuranti, ma senza pubblico, si rivolge a Langman, un regista fallito perché ostinato a voler rappresentare opere di arte pura, lontane dalle esigenze e dai gusti del pubblico. Dopo un’iniziale esitazione Langman accetta l’incarico e inizia a preparare la rappresentazione del sogno, scritturando gli abitanti di Santa María come attori e comparse. Su questa prima trama si innestano altre storie, come quella di Moncha (dal racconto La novia robada, La fidanzata sottratta), che torna a Santa María dall’Europa per sposare l’uomo che ama, Marcos; non importa che questi sia già morto da parecchio tempo, perché Moncha decide di abbigliarsi da sposa e passeggiare ogni giorno per la città, come nella convinzione di potersi ricongiungere prima o poi con l’uomo desiderato per tutta la vita. Il matrimonio è anche al centro di El infierno tan temido (L’inferno tanto temuto), in cui Risso caccia di casa la moglie Gracia, dopo che costei gli racconta di un tradimento a cui non attribuisce nessuna importanza. Risso è condannato a ricevere con crudele regolarità a casa sua fotografie della sposa scacciata: è Gracia stessa a inviarle, dopo essersi immortalata nel corso di rapporti sessuali con uomini sempre differenti. In El álbum giunge a sconvolgere la monotonia della vita cittadina una donna di nome Carmen Méndez, che viaggia con una grossa valigia; se ne sente attratto il giovane Jorge Malabia, sedotto dalle incredibili storie di viaggi intorno al mondo che Carmen ogni sera gli racconta (senza parlare ma percuotendo una fisarmonica). Anche se ritiene che tutti questi viaggi siano frutto di immaginazione e invenzione, Jorge s’innamora di Carmen. Ma un giorno si viene a sapere che la donna è fuggita con un altro uomo, lasciando in albergo la voluminosa valigia; Jorge la forza, e al suo interno ritrova tutte le fotografie dei viaggi raccontati, restando ancor più disgustato per quello che considera il peggiore dei tradimenti: «ci sono infatti molti modi di mentire, ma il più ripugnante è dire la verità, tutta quanta la verità, nascondendo l’anima dei fatti», come chiosa Juan Carlos Onetti. Il fantasmagorico finale è il sogno della protagonista, finalmente rappresentato da Langman e dalla sua raccogliticcia compagnia: ritornano sulla scena tutti i personaggi, che interagiscono contemporaneamente, creando nella sognatrice uno stato di beata ebbrezza. Il suo godimento cresce fino a privarla della vita; con la costernata contemplazione del cadavere sulla scena il “teatro musicale” si arresta abbastanza bruscamente. Più che la riflessione sulla realizzabilità dei sogni, o anche soltanto sulla loro rappresentabilità concreta (fattibile e letale), il libretto di Rebstock stimola un’analisi del divenire teatrale come susseguirsi di scene concatenate senza un vero inizio e senza una fine logico-razionale; nel corso dell’intera rappresentazione, infatti, lo spettatore non può dire se sta assistendo allo sviluppo di quattro storie parallele o se ogni quadro e ogni gruppo di personaggi costituiscano la scena interna del sogno della donna, che Langman e i suoi accoliti lavorano per riprodurre. Non si tratta di semplice “teatro nel teatro”, ma di “sogno nel teatro”, per cui i filtri di analisi metateatrale non sono più sufficienti; l’insistenza sul fatto che la donna non voglia pubblico alla rappresentazione del proprio sogno induce a concludere che nella scrittura di Onetti anche il teatro sia condannato alla scomparsa e alla perdita di senso. Al contrario, nella riscrittura di Rebstock e Mendoza la musica strumentale e i pochi accenni di canto lirico servono a cementare la continuità delle storie e a forgiare a loro beneficio un senso morale, che insomma non tradisca la più antica missione etico-politica del teatro. Realizzare i nostri sogni più intimi è impossibile; anche qualora si voglia tentarne la “rappresentazione”, si va contro quella misteriosa intangibilità che dà senso all’esistenza onirica, e che forse è la parte più autentica dell’essere umano, proprio in quanto già rappresentazione, sintesi teatrale e scenica, ancorché esclusivamente mentale, di tutte le assurdità della vita reale. Anche l’idea di menzogna è declinata con un sistema narrativo molto originale; non è che la città sia popolata da abitanti menzogneri o che il mentire di qualcuno provochi conseguenze catastrofiche. La menzogna è la città stessa, perché Santa María semplicemente non esiste. L’immaginario italiano della metropoli inesistente si può trascrivere in una serie di varianti come le Città invisibili create da Italo Calvino, in cui non mancano mai la suggestione esotica e il carattere urbano di punto d’arrivo, meglio se al termine di un viaggio incredibilmente lungo. La rappresentazione di un’opera d’arte totale che sfocia nel sacrificio di chi vi crede immensamente, poi, è già nei pirandelliani Giganti della montagna. Juan Carlos Onetti, che pubblica i racconti in questione tra 1951 e 1968, avrebbe anche potuto conoscere il testo incompiuto di Pirandello. Tuttavia, soltanto dall’immaginazione di uno scrittore sudamericano come Onetti poteva nascere l’inesistente Santa María, una città immobilizzata nel torpore della ripetizione, priva di qualunque attrattiva, abitata da un’umanità rassegnata a un’esistenza totalmente priva di senso. Quando il palcoscenico si illumina lo spettatore si trova di fronte a uno spaccato di interni urbani: su piani praticabili di diversa altezza e comunicanti si affiancano un ampio bar, un salotto, un terrazzino, uno studio radiofonico, insomma luoghi tipici dello spazio pubblico, popolati da una campionatura di apatica umanità. La scomposizione dello spazio in cubicoli allusivi a esistenze e professioni differenziate ha qualcosa di felicemente ronconiano, anche nel taglio della scena unica di Bettina Meyer. Ma nello spettacolo di Rebstock e Mendoza la musica scala il palco per occuparlo stabilmente e imporre la sua presenza forte: oltre a una piccola orchestra (che è quella del Teatro Real) nei vari ambienti scenici si muovono incessantemente, recitano e suonano sei strumentisti-attori di straordinaria bravura: un violino, un violoncello, un clarinetto, un trombone, un sassofono e un pianoforte. Sono sei cittadini di Santa María che scandiscono ogni accadimento con accordi e interventi strumentali perfettamente sincronizzati (e a memoria). A essi si aggiunge un formidabile percussionista (Tobias Dutschke, nelle vesti del Cameriere e di Tito), che guida una serie di giochi ritmici utilizzando di tutto: pedine della dama e del domuno, forchette, piatti, stoviglie, oggetti qualunque (ma anche i timpani, nascosti dietro il bancone del bar). Ai numeri percussivi si alternano specie di interludi, che collegano i quadri e insieme danno vita all’azione teatrale. La donna sognatrice (Laia Falcón) e Jorge (Michael Pflumm) sono i personaggi più impegnati sul piano vocale, sebbene le loro parti non si possano comunque definire liriche. Se del pianoforte si accarezzano o si frizionano dolcemente le corde, senza mai toccare la tastiera, la fisarmonica serve soprattutto come oggetto simbolico (funge anche da valigia da viaggio), che respira e viene percosso, ma quasi mai viene suonato in termini melodici. La chiave stilistica dell’opera, in altre parole, è la duttile funzionalità grazie alla quale gli attori diventano cantanti, gli strumentisti diventano personaggi e attori, tutti i comprimari assumono ruoli di primo piano, sussurrando blocchi determinanti della parte drammaturgica. Elena Mendoza gestisce dal 2014 la cattedra di composizione dell’Universität der Kunste di Berlino, dove ha concentrato la maggior parte dell’attività artistica degli ultimi anni, dedicandosi soprattutto alla musicalizzazione del linguaggio e all’interazione delle diverse forme teatrali; il sodalizio con il regista Matthias Rebstock ha dato frutto nella prima opera di Mendoza, Niebla, tratta da un romanzo di Miguel de Unamuno. La sua seconda opera avrebbe dovuto essere posta in scena durante la stagione 2014-2015 (Mortier era scomparso l’8 marzo 2014), ma fu differita a causa di problemi economici e di gestione delle risorse; ed è un bene che il Real l’abbia recuperata all’interno di una stagione prestigiosa e d’alta qualità, come quella che celebra il bicentenario dell’istituzione. Lo stile compositivo della Ciudad si può riassumere in una polifonia frammentata ma rigorosamente tonale, che a volte richiama gli esperimenti rumoristici di Cage, le “azioni invisibili” di Sciarrino, i colpi percussivi del flamenco così come le messe di voce liederistiche. Più che di analisi musicale finalizzata a dar vita all’azione pare più opportuno parlare di azione tradotta in sintesi musicale, anche attraverso la drammatizzazione della presenza dello strumento/strumentista: musica come linguaggio dinamico eppure spezzato, immanente al testo letterario capace di creare il mondo (detto diversamente, immanente alla scrittura di Onetti che crea la città di Santa María). L’esecuzione di questa prima mondiale è perfetta: e il merito maggiore va al direttore Titus Engel, abilissimo a gestire la complicatissima articolazione della partitura (che include i due livelli strumentali – in buca e sul palco -, gli attori, i cantanti, le amplificazioni, i momenti di buio completo, le videoproiezioni, l’assemblaggio di suoni e rumori, tutto quell’ordinatissimo caos che forma sostrato e superstrato sonoro della Ciudad). Dopo quasi un’ora e mezza di “teatro musicale” senza soluzione della continuità il pubblico madrileno reagisce positivamente e applaude convinto a tutti gli interpreti. Il buon esito si deve anche alla progressiva chiarificazione del procedere narrativo, fino all’ultima immagine, del corpo morto ricoperto dalle giacche di tutti i figuranti. La sognatrice spira al culmine della rappresentazione onirica, come se avesse carpito un segreto troppo importante o avesse squarciato il velo di una menzogna che era durata per tutta la sua vita. La didascalia di Onetti apre e chiude circolarmente il “teatro musicale” nella cifra postmoderna dell’inganno sistemico, che ha completamente soppiantato la ricerca della verità e del suo senso: «Quell’autunno non accadde proprio niente a Santa María, fino a quando non giunse l’ora – maledetta, fatale, stabilita o inesorabile che fosse – l’ora felice della menzogna».   Foto Javier de Real © Teatro Real de Madrid