Palermo, Teatro Massimo:”Otello”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2014
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti, libretto di Arrigo Boito
dalla tragedia Othello, the Moor of Venice di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi  
Otello GUSTAVO PORTA
Desdemona JULIANNA DI GIACOMO
Jago GIOVANNI MEONI
Cassio GIUSEPPE VARANO
Lodovico MANRICO SIGNORINI
Montano MAURIZIO LO PICCOLO
Emilia ANNA MALAVASI
Roderigo PIETRO PICONE
Araldo RICCARDO SCHIRÒ
Il clown JEAN MÉNINGUE
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Piero Monti
Maestro del coro di voci bianche Salvatore Punturo 
Regia Henning Brockhaus  
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Patricia Toffolutti
Luci Alessandro Carletti
Movimenti mimici Jean Méningue
Nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con il Teatro San Carlo di Napoli  
Palermo, 21 febbraio 2014

Fra le opere del repertorio verdiano, Otello manifesta più di altre un forte legame con episodi avvenuti nel passato, di cui però vengono mostrate soltanto le estreme conseguenze. Su questa apparente incoerenza narrativa pesa senz’altro la soppressione del primo atto dell’opera shakespeariana (il cosiddetto ‘atto veneziano’) che trasforma la struttura originale della tragedia in un dramma musicale in quattro atti. L’effetto drammaturgico è dirompente: i sentimenti presentati appaiono eccessivi e ancor più archetipici proprio perché di essi non vengono spiegate le ragioni scatenanti. La gelosia di Otello, l’amore di Desdemona, la disperazione di Roderigo travolgono e stupiscono in quanto irrazionali. Ma il sentimento che più di tutti fonda l’opera, che costituisce il motore dell’azione, è l’odio di Jago. Non a caso Verdi meditò a lungo sulla possibilità di mantenere il titolo originale o di modificarlo a favore dello scellerato alfiere. Quello che si perde nella scelta finale rimane, però, sul piano della sostanza drammaturgica. Personaggio centrale resta ugualmente Jago, il sottile manovratore dei destini altrui che ordisce inganni e perfidi tranelli. L’efficacia della rappresentazione di Otello dipende dunque in larga parte dalla bravura di colui che interpreta di Jago. E nel caso dell’allestimento del Teatro Massimo le spalle sulle quali si è retto l’intero spettacolo erano quelle salde e robuste di Giovanni Meoni. Dopo Faust e Bohème, il baritono torna a Palermo con un personaggio vivificato da una lettura ispirata e attenta a ogni minimo particolare. Oltre che per presenza scenica e duttilità di timbro, Meoni si distingue per un fraseggio mobilissimo, intenso e mellifluo al momento opportuno, ma mai eccessivamente sopra le righe. Jago è dunque presentato nella sua ‘umanità’ di personaggio che vive un conflitto insanabile tra apparenza e realtà, talmente lacerante da essere espresso in una delle pagine più apocalittiche dell’ultimo Verdi, il celebre Credo, condotto con gestualità sobria e giusta intenzione.
Al contrario di Jago, Otello e Desdemona sono figure ‘tutte d’un pezzo’: essi appaiono per quello che sono, come leggiamo sia in Shakespeare che nel libretto di Boito. In questo senso arrivano ad incarnare prototipi più assoluti, dalla scrittura vocale meno sfumata, ma allo stesso tempo estrema e irta di difficoltà. Sotto numerosi punti di vista la Desdemona di Julianna Di Giacomo risponde alle intenzioni della regia. Angelo umanato sceso in terra a miracol mostrare, il personaggio evidenzia un miracolo essenzialmente canoro, intessuto di note flautate, acuti cristallini e morbidi filati. La Di Giacomo ha a disposizione uno strumento possente e ben modulato, che sa piegare alle necessità espressive richieste dalla partitura. Soltanto in alcuni punti pecca un po’ troppo di irruenza (ad esempio nel confronto con Otello del secondo atto), ma nella parte conclusiva uniforma la resa vocale a morbidezza eterea, misurata con giusto equilibrio nella Canzone del Salice e poi espansa nella celebre Ave Maria. Prevedibilmente il pubblico la premia con gli applausi più fragorosi, compensandola del torto subito dalla violenta mano del consorte. Al contrario, nonostante le buone intenzioni, Gustavo Porta nel ruolo di Otello non riesce a convincere, tenendosi sempre sul filo della correttezza vocale e costruendo un personaggio tendenzialmente sfocato. I buoni momenti si limitano agli eccessi d’ira del secondo atto – ma con acuti aperti e privi di volume – e alla parte iniziale del terzo, dove la prevalenza del declamato consente un respiro più ampio e articolato sul piano della progressiva disgregazione del personaggio. Per il resto, sin dalla celebre sortita, l’elaborazione traballante del fraseggio rispecchia un affanno generale che è meno scoperto nelle zone medie del registro, ma che condiziona negativamente il risultato complessivo.
Debole di voce e carattere è pure Cassio (Giuseppe Varano), che parte in sordina per poi recuperare nel terzetto dell’inganno, trascinato nella rete canora di Jago e contrappuntato dai cupi commenti di Otello. Il resto della compagine è all’insegna del timbro basso-baritonale, con momenti convincenti nel Montano di Maurizio Lo Piccolo e nel Lodovico di Manrico Signorini, affiancati da Pietro Picone (Roderigo) e Riccardo Schirò (Araldo). Degna compagna vocale di Giovanni Meoni è il mezzosoprano Anna Malavasi nel ruolo di Emilia, giustamente equilibrata nel quartetto del secondo atto, fino a mostrare un carattere intenso e vibrante alla fine dell’opera, coronato dal brevissimo ma coinvolgente confronto con Otello (“Aprite! Aprite! – Chi è là! Chi batte?”). Come spesso accade, il Coro del Teatro Massimo – abbigliato in modo improbabile dalla costumista Patricia Toffolutti – si è mostrato più rilassato nelle parti caratterizzate dalla quadratura ritmica tradizionale, dipingendo un imponente affresco in chiusura di terzo atto (“Quella innocente un fremito”) e costruendo uno sfondo efficace al duello fra Cassio e Montano. Meno bene nella tempesta iniziale e nella scena nel giardino del secondo atto (“Dove guardi splendono”), sulla quale ha pesato la trasposizione ospedaliera, con tanto di valigetta da pronto soccorso, presentata dalla regia. La bacchetta di Renato Palumbo rivela ancora una volta l’approfondita conoscenza del repertorio verdiano e compone dinamiche spesso illuminate da raffinati contrasti, ma talvolta sostenute da tempi poco incisivi, evidenti soprattutto nell’atto di apertura.
La colorata tavolozza della partitura non ha trovato riscontro nella confezione dell’allestimento, curato da Henning Brockhaus per la regia, con le scene di Nicola Rubertelli. Quest’ultime disperdono l’atmosfera calda e mediterranea della Cipro di fine Quattrocento, sostituendole uno scenario plumbeo e nebbioso. Non più un mondo solido che si disgrega, ma una realtà già disgregata in origine. È Jago a ‘svestire’ Desdemona del velo nuziale – proposto anche nella funzione di sudario, sia nel duetto del primo atto che alla fine dell’opera – rompendo l’incanto simboleggiato dalla grande tela sul palcoscenico, libera rielaborazione del Trittico del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch. Le allusioni al pittore olandese sono raffinate e dense di allegorie, ma a volte sfuggenti e poco calate nella drammaturgia dell’opera. Anche l’impostazione in chiave circense dello spettacolo (mimi, giocolieri e clown, spesso alter ego dei protagonisti) ricorda più Rigoletto che la tragedia shakespeariana. La mano registica, percepibile in modo chiaro sia nel primo che negli ultimi due atti, risulta sfuggente all’interno del secondo, se non fosse per l’invenzione della maschera durante la descrizione della gelosia (“Temete, signor, la gelosia!”) e per il farraginoso giro dei pastrani, già inaugurato nel duetto del primo atto. In questo caso il gesto di Desdemona che abbraccia il cappotto esprime sin dall’inizio la solitudine della donna, ricordando nella sua dolente semplicità una celebre scena di The Artist, film del 2011. E anche l’idea di fondo del duetto è abbastanza condivisibile: l’unione amorosa tra i due protagonisti può avvenire soltanto su un “letto di morte”, come appunto sarà nel quarto atto; ma i mezzi con cui tutto questo viene realizzato – lo sgombero dei cadaveri nel corso del duetto stesso, effettuato non solo da Otello ma anche da Desdemona – spezzano ogni possibile incanto, oltre a presentarsi poco coerenti con trama e drammaturgia. Nel comporre l’ultimo tassello della sua ‘trilogia’ palermitana, Brockhaus dunque manca l’obiettivo, ammucchiando una serie di fantocci-cadavere su cui rimane lo splendore di un bacio: la musica di Giuseppe Verdi e la storia di un uomo che “amò non saggiamente, ma all’eccesso”. Repliche sino al 2 marzo. Foto Franco Lannino/Studio Camera