Melodramma in tre atti su libretto di Luigi Illica. Prima rapprasentazione: Roma, Teatro Costanzi, 22 novembre 1896
Dopo Zanetto, rappresentato per la prima volta il 2 marzo 1896, trascorsero ben due anni prima che un’altra opera di Mascagni calcasse di nuovo il palcoscenico. Si tratta di Iris che ebbe il suo debutto teatrale il 22 novembre 1898 al Costanzi di Roma sotto la direzione dello stesso compositore con un cast di cui facevano parte cantanti che già avevano partecipato ad altre prime di opere di Mascagni, quali il soprano Hariclea Darclée (Iris) e il tenore Fernando De Lucia (Osaka) insieme ad Ernestina Tilde Milanesi (geisha), Eugenio Grossi/Gualtiero Pagnoni (merciaiolo) e Piero Schiavazzi (cenciaiolo), Guglielmo Caruson (Kyoto), Giuseppe Tisci Rubini (un cieco). Considerando la facilità e la rapidità con cui Mascagni aveva composto le prime cinque opere, sorprende questo spazio di tempo di due anni tra Zanetto e Iris. Si era forse esaurita la facile vena che aveva caratterizzato la prima parte della sua produzione? In realtà quello fu un periodo piuttosto intenso per Mascagni ancora una volta conteso da Ricordi e Sonzogno. Il primo, che già ai tempi del Ratcliff e, ancor prima, della Cavalleria aveva cercato di assicurarsi i diritti sull’edizione di queste due opere, in quest’occasione riuscì a mettere il suo marchio sulla nuova opera di Mascagni, mentre il secondo, che aveva cercato di intromettersi nel contratto con Ricordi, reclamando una priorità sulle opere del Livornese, ottenne dal compositore l’impegno per la composizione di una nuova opera, Le maschere, da contrapporre all’editore concorrente. Mascagni, quindi, avrebbe composto Iris, inizialmente intitolata La giapponese, per Ricordi e Le maschere per Sonzogno, ma questa battaglia tra i due editori finì per produrre qualche equivoco tra Mascagni stesso e Ricordi e il conseguente rallentamento nella composizione dell’opera. Solo dopo un chiarimento avvenuto durante un incontro a Cerignola, al quale partecipò anche il librettista Luigi Illica, la composizione di Iris poté procedere, anche se non così speditamente come ci si sarebbe attesi. La composizione dell’opera fu rallentata non solo dal moltiplicarsi degli impegni come la direzione di una serie di concerti alla Scala di Milano nel mese di marzo 1898, la rappresentazione del poema musicale A Giacomo Leopardi il 29 giugno dello stesso anno a Recanati con il soprano Maria Farneti, allora giovanissima allieva del Conservatorio di Pesaro e futura grande interprete di Iris alla prima torinese nel dicembre 1899, ma anche da una meticolosa attenzione ai dettagli che indusse il compositore a visitare una collezione di strumenti musicali giapponesi a Villa Krauss a Firenze. Mascagni, nonostante i mugugni di Sonzogno che reclamava la sua opera commentando: “mentre è in ritardo con me, lavora per altri”, si dedicò con lo stesso impegno ad entrambe le opere; la prima ad andare in scena fu, tuttavia, Iris che, come ricordato in precedenza, fu rappresentata il 22 novembre 1898 al Costanzi di Roma con un grande successo di pubblico per nulla compromesso dai contrasti, che si risolsero in modo differente, sorti tra il compositore da una parte e il direttore Mascheroni e il tenore De Lucia dall’altra. Mentre Mascheroni cedette il podio e la bacchetta ad un felice Mascagni, De Lucia rimase al suo posto e prestò, pur contrariato, la sua voce al personaggio di Osaka. Se il pubblico si mostrò caloroso nei confronti di questa nuova opera di Mascagni, la critica, sorpresa dalla novità della partitura, si divise tra coloro che la esaltarono, come Bastianelli il quale la definì ispiratissima, e tra coloro che, invece, la stroncarono. In effetti Iris è un’opera estremamente originale all’interno della produzione di Mascagni per la sua struttura circolare, aperta e chiusa dal celeberrimo Inno del Sole, che incastona e proietta la tragedia dell’eponima protagonista in una dimensione simbolica il cui momento culminante è rappresentato dal terzo atto quasi del tutto privo d’azione.
L’opera – Atto primo
L’opera si apre con una breve introduzione strumentale di carattere descrittivo che precede il celeberrimo Inno del Sole cantato dal “Sole” stesso reso attraverso un coro invisibile. Il suo arrivo è preparato dalla Notte, rappresentata da un tema cupo e grave, che si schiarisce nelle morbide sonorità degli archi quando incominciano a filtrare i primi albori. La natura prende vigore e i fiori aprono i loro petali nei celestiali e acuti accordi dei violini fino a quando l’Aurora, annunciata dai corni, diffonde la sua luce con il suo celebre tema (Es. 1). A questo tripudio di suoni si unisce il coro che inneggia al sole come fonte della vita e al suo spuntare riprende il tema precedentemente esposto (Dei mondi io la cagione) con le quattro voci che entrano a terrazza in un crescendo che rappresenta bene il diffondersi della luce. Il coro si conclude con la parola «amore» cantata su un solare accordo di re maggiore. In questo contesto di luce si sveglia Iris che ha appena fatto un brutto sogno popolato di serpenti ed espresso da una musica piuttosto drammatica che trova un’apertura melodica in corrispondenza del riferimento al sole. Frivoli accordi introducono l’ingresso di Osaka e Kyoto, personaggi le cui caratteristiche moralmente discutibili sono immediatamente riconoscibili nei loro atteggiamenti disinvolti. Osaka intende, infatti, possedere Iris, la figlia del Cieco, con l’aiuto di Kyoto con il quale alla fine inneggia alla vita. Il sole ravviva anche il Cieco, padre di Iris che, pur non vedendone la luce, ne sente il calore diffuso da una nuova breve ripresa del tema dell’inno del sole. Mentre la figlia innaffia i fiori e l’uomo prega, annunciato da un tema allegro e svolazzante, entra in scena un coro di Mousmè, giovani lavandaie che vanno al ruscello a lavare la loro biancheria. Le fanciulle inneggiano, in una scrittura delicata, all’acqua del ruscello che sembra popolarsi quasi di presenze animistiche. Iris si unisce al loro canto, insistendo sulla metafora della vita che scorre come l’acqua in gaie stille, mentre il padre recita il suo personale rosario. Questo momento poetico è infranto dal suono di samisen, di gongs e di tamburelli che introducono con un tema allegro l’arrivo di teatranti guidati da Kyoto il quale si presenta come Danjuro, il padre dei fantocci e chiede alle mousmè se hanno delle ragazze da marito, in quanto nelle sue commedie si parla di matrimoni. A questo punto viene messa in scena una piccola pièce teatrale di cui protagonista è Dhia, una Guecha, che si lamenta, in una scrittura piena di ribattuti, della sua condizione di donna, rimasta sola dopo la morte della madre e tiranneggiata dal padre il quale, impersonato da Kyoto, vorrebbe venderla al gran mercato di Simonosaky. La volgarità dell’uomo è resa con una scrittura pesante che insiste anche nell’accompagnamento orchestrale su suoni gravi; la ragazza, da parte sua, vorrebbe morire quando Osaka, nelle vesti di Jor, figlio del sole, intona, accompagnato dall’arpa, una serenata (Apri la tua finestra). Iris, che aveva abbandonato la siepe per accostarsi ancora di più alla scena, guarda con partecipazione la rappresentazione teatrale che raggiunge il suo acme nel momento in cui Dhia, dopo aver promesso di donarsi interamente a Jor, muore. Jor in una scrittura piena di sensuali cromatismi promette a Dhia gioie celestiali e invoca delle danzatrici celesti che danno vita a tre danze rappresentanti rispettivamente la Bellezza (un valzer lento), la Morte resa da un tema costituito da una melodia discendente sempre su un ritmo di valzer lento e, infine, il Vampiro il cui carattere sfuggente e misterioso è esaltato da rapide scale ascendenti in un passo dalla struttura ritmica sensibilmente più rapida. Durante questa danza, samurai, nascosti dalle guèchas che danzano, rapiscono Iris svenuta. Compiuto il misfatto, i presunti teatranti si allontanano lasciando solo sulla scena il Cieco, mentre l’orchestra riprende la musica festosa che aveva introdotto il loro ingresso. L’uomo, pensando di avere accanto la figlia, le chiede un parere sulla rappresentazione, ma, quando comprende che non è lì, incomincia a cercarla disperatamente facendosi aiutare da alcuni merciaiuoli sopraggiunti. Gli uomini trovano sulla soglia della casa del denaro con un foglio nel quale si legge che la fanciulla si trova al Yoshiwara, noto luogo di perdizione; il cieco lancia un appello, il cui carattere drammatico è accentuato da un lento incedere ritmico e da un’armonia prevalentemente dominantica, ai presenti affinché lo accompagnino al Yoshiwara per schiaffeggiare sua figlia.
Atto secondo
Il secondo atto si apre all’interno del Yoshiwara, dove una guecha intona una semplice melodia, accompagnata dal suono del samisen e costruita su arpeggi di accordi di tonica e dominante di la minore. Il canto è interrotto da Kyoto il quale non vuole che Iris possa svegliarsi e in quel momento giunge Osaka che esalta le affascinanti doti della fanciulla. Kyoto, in realtà per una forma di brama personale, consiglia, in una scrittura insinuante, Osaka di corteggiare Iris con doni. Subito dopo ritorna il tema, che aveva accompagnato Iris al suo risveglio nel primo atto, per introdurre questo nuovo risveglio della fanciulla che, non riconoscendo il luogo, appare spaesata e ritiene di trovarsi in paradiso. Bicordi staccati introducono Osaka che entra in modo circospetto ordinando a Kyoto di inviare i doni a un suo cenno. Il duetto, nel quale Osaka cerca di sedurre Iris, presenta delle forti tinte sensuali soprattutto negli appassionati temi che Mascasgni scrive per il personaggio maschile. Iris, da parte sua, mescolando la realtà con la finzione, crede di trovarsi di fronte a Jor, ma l’uomo infrange il sogno della fanciulla dichiarando di chiamarsi «Il piacere» in un passo vocalmente arduo costituito da un salto di settima maggiore seguito da sensuali cromatismi discendenti. Quest’affermazione fa fremere Iris che, accompagnata da un moto perpetuo di agitati accordi, intona la celebre aria della piovra conclusa da un raggelante si acuto sulla parola morte che sembra anticipare la tragica fine della fanciulla. Osaka cerca di rassicurarla, ma Iris, che non si lascia sedurre nemmeno dalle promesse delle ricchezze fattele dall’uomo, chiede soltanto di tornare dal padre. A questo punto l’uomo, spazientito, consiglia Kyoto di mandarla via, ma questi, non volendo perdere la possibilità di guadagno, decide di esporre la fanciulla al Yoshiwara e, per raggiungere il suo scopo, prima la minaccia e poi le regala il pupo Jor, utilizzato per la commedia. Iris, intonando la cantilena che aveva caratterizzato il pupo nella commedia, si veste e viene esposta alla vista delle persone che restano come folgorate. Tra queste vi è anche Osaka il quale, di fronte alla bellezza di Iris, non resiste e, dopo esser tornato sui suoi passi, si produce in un appassionato appello alla donna. Nel frattempo giunge il Cieco che chiama per nome la figlia su un inquietante accordo di settima diminuita acuito da un salto di quinta diminuita di non semplice intonazione (Es. 2) che rende la situazione ancor più tragica. L’uomo, tra lo stupore generale, maledice la figlia che lancia un disperato grido di dolore.
Atto terzo
Un piccolo preludio di carattere orientaleggiante per l’utilizzo di strumenti nipponici e per una scrittura armonica originale costruita su scale orientali apre il descrittivo terzo atto dove ritorna il tema della Notte già udito all’inizio dell’opera. Un tema staccato introduce il cicaleccio dei cenciaiuoli che costituiscono quasi un piccolo e delizioso quadretto di genere a cui segue il risveglio di Iris che, come trasognata, sembra sentire nella sua anima l’eco del richiamo del padre. I suoi «perché» sono, infatti, resi da un drammatico salto discendente di quinta diminuita che ricorda quello con cui il padre l’aveva chiamata nel secondo atto. Alla domanda di Iris sembrano rispondere i tre personaggi maschili: Osaka, Kyoto e Il Cieco (tagliati quest’ultimi nell’edizione in ascolto) che mostrano il loro personale egoismo fornendo così al pubblico una spiegazione della tragedia di cui è vittima l’eponima protagonista. Iris, rimasta sola, canta il suo inno di morte in un acceso lirismo concluso dalla ripresa del tema dell’Inno del Sole che sembra diffondere una catartica luce spirituale sulla donna che muore in un ossimorico tripudio di suoni, fiori e colori esaltato dalla forza vivificatrice del sole.