Catania, Teatro Massimo Bellini, Stagione Lirica 2013
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano
da The Bride of Lammermoor di W. Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton PIERO TERRANOVA
Miss Lucia ROSANNA SAVOIA
Sir Edgardo di Ravenswood ALESSANDRO LIBERATORE
Lord Arturo GIUSEPPE COSTANZO
Raimondo FRANCESCO PALMIERI
Alisa LOREDANA RITA MEGNA
Normanno SALVATORE D’AGATA
Coro e orchestra del Teatro Massimo Bellini di Catania
Direttore Emmanuel Plasson
Maestro del Coro Tiziana Carlini
Regia Guglielmo Ferro
Scene Stefano Pace
Costumi Françoise Raybaud
Luci Bruno Ciulli
Nuovo allestimento dell’E.A.R. Teatro Massimo Bellini
Catania, 3 dicembre 2013
Cronaca e storia si intrecciano nella Lucia di Lammermoor donizettiana (1835) – andata in scena martedì scorso al Teatro Massimo- narrante un fatto vero occorso in Scozia sul finire del Cinquecento. Analogo intreccio nell’allestimento che martedì scorso è stato registicamente guidato da Guglielmo Ferro, mentre sul podio concertava Emmanuel Plasson: italiano il primo (figlio di Turi Ferro) con importanti affermazioni all’estero; cosmopolita il secondo, acclamato dovunque nel mondo si apprezzi la musica classica.
L’allestimento dunque è stato brioso per quanto concerne la veste musicale, fresco di intelligenti accorgimenti sul piano spettacolare, con una accentuazione realistica sul versante umano e una amplificazione fantastica su quello ambientale. In altre parole: la scena “scozzese” è facilmente trasferibile anche in altre contrade, a dimostrazione che il dramma della donna contesa tra gli imperativi familiari e quelli non meno categorici del cuore si può svolgere dovunque: nella Verona di Giulietta, come nella Sicilia dei Viceré. Il melodramma, dunque, appare come una creazione viva di sviluppi e di sfumature sentimentali nuove.
E questo appartiene al novero della storia (musicale e teatrale) di tutti i tempi. La cronaca attuale, assai grigia, è data dalle pesanti decurtazioni finanziarie di cui soffre il Teatro. Dopo quattro mesi di inutili dichiarazioni da parte dei vertici burocratici e politici responsabili, i dipendenti, artisti e non, sono alle strette e hanno inserito la loro protesta come prologo del melodramma: una processione mortuaria, nei costumi di scena e un grido a non uccidere il teatro. Guglielmo Ferro ha ribadito che “il Teatro è nostro” e come tale sarà difeso, quale estremo “baluardo della nostra civiltà”. E ha ragione. Il pubblico ha applaudito e poi ha firmato il documento di protesta fatto circolare in sala.
Sul piano artistico, l’allestimento è di rilievo registico notevole per quella fusione perfettamente riuscita tra ambientazione antica e rifrazioni moderne; perfettamente riuscita anche l’interpretazione corale culminante nel pathos del celebre sestetto (e il merito chiaramente va alle assidue cure di Tiziana Carlini come maestro del coro). Briosa la lettura della partitura da parte di Plasson, che ha sapientemente vivacizzato i punti salienti (e sono tanti) del classico melodramma, temperando le parti cantate e quelle strumentali.
Venendo al cast vocale Rosanna Savoia ha interpretato il ruolo del titolo con grande empito sentimentale e una rilevante forza espressiva, superando con sicurezza tutte le difficoltà dell’epico personaggio. Il suo canto non diventa mai sfoggio belcantistico, romanticamente aderisce sempre alle passioni che il romanzo storico ottocentesco impone. Non meno lodevole la prestazione di Piero Terranova, che sostiene con forza vibrante la parte di Enrico: accenti baritonali di grande risonanza in contrapposizione con la dolcezza dell’eroina, e con quella venatura di irriducibile asprezza di cui la Scozia antica andava fiera. Gli altri due ruoli maschili, – quello dell’amato e dello sposo imposto – sono stati retti rispettivamente da Alessandro Liberatore (Edgardo) e Giuseppe Costanzo, ma la contrapposizione dei due eroismi, prevista dal compositore, fortemente espressa dal primo tenore, non ha trovato adeguata consonanza in Liberatore, a motivo di una indisposizione che non gli ha impedito di portare a termine il suo impegno, ma ne ha offuscato la prestazione. Adeguate le interpretazioni degli altri cantanti (Francesco Palmieri, Loredana Rita Megna e Salvatore D’Agata) e applausi finali per tutti. I quali applausi hanno confermato l’attaccamento della cultura catanese al proprio teatro, che da generazioni costituisce il centro diffusore delle migliori intelligenze cittadine (in quella stessa sala vennero Verga e Pirandello…), mentre gli striscioni allarmati che ancora incombono sulla scena e sui palchi ricordano che se la grande Storia del teatro è radiosa, la sua cronaca attuale è assai grigia. “Ha da passà a nuttata!”, come disse un grande uomo di teatro.