Interprete apprezzata in tutto il mondo per le sue doti canore, ormai punto di riferimento per le interpretazioni dei suoi ruoli mozartiani, incontriamo il celebre soprano Carmela Remigio in occasione della riproposta della Bohème di Pontiggia che già andò in scena nell’autunno 2008 sul palco del Teatro Comunale di Firenze. In una lieta serata di dicembre, quando anche la città del giglio si riveste delle luci natalizie, davanti a un buon caffè di uno storico bar fiorentino e con la bellezza solenne del Duomo di Santa Maria del Fiore che s’intravede oltre le vetrine…
Con la Bohème interpretata di recente al Maggio Musicale Fiorentino è tornata ad affrontare il ruolo di Mimì che sappiamo esserle molto caro. Come ha lavorato nella realizzazione di questa produzione?
Questa è una produzione che definirei tradizionale innanzitutto, perché racconta una Bohème come tutti la vogliamo sentire e vedere, ma soprattutto perché trovo bello realizzare allestimenti che abbiano una coerenza tra ciò che viene recitato e ciò che viene cantato, tra gesto e canto. Riprendo sempre Mimì con molto piacere, sin dal mio debutto a Piacenza nel 1992. Serbo un particolare ricordo di una Bohème del 1999 al Teatro Comunale di Bologna sotto la direzione del M° Daniele Gatti, con Ildebrando D’Arcangelo in Colline, Natale De Carolis in Schaunard e Patrizia Ciofi debuttante nel ruolo di Musetta. Ma ricordo con emozione anche quella del 2009 in Giappone, con il M° Myung-Whun Chung che vi debuttava come direttore. Boheme è tra le prime opere che ho ascoltato nella mia vita; trovo che l’edizione di Karajan con Pavarotti e Freni sia inarrivabile.
Come si relaziona nei confronti di questo personaggio, quali le sue considerazioni a riguardo?
Devo confessare che quello di Mimì è un ruolo che mi fa soffrire perché portare in scena l’amore in modo così esplicito, prendere coscienza che l’entusiasmo di un amore giovanile possa serbare nel suo seno la morte è una cosa assolutamente struggente: ogni volta non riesco a trattenere le lacrime quando Rodolfo chiama Mimì ormai morta. Mimì è una creatura fragile, impalpabile già dal suo ingresso in scena. Con lei Puccini crea la più sensibile di tutte le sue creature, ed interpretarla per me rappresenta una continua sfida. Inoltre, considero cruciale per la riuscita dello spettacolo quell’alchimia che si viene a creare coi colleghi (il direttore, il regista, il partner del personaggio che in questo caso è Rodolfo) perché alla base di tutto ci dev’essere uno scambio di emozioni, una condivisione dello stesso linguaggio emotivo e musicale.
La Bohème è stata un’opera particolarmente amata da Pavarotti col quale aveva un rapporto molto stretto. Ricorda qualche particolare aneddoto in relazione a questo titolo o dei consigli che il maestro le dava nell’affrontare il ruolo di Mimì?
Ho incontrato Luciano nel 1992 a Philadelphia quando vinsi l’International Voice Competition a lui intitolato, e il primo recital che feci con lui fu nel 1997. Nel corso degli anni ne sono seguiti circa una settantina toccando anche Londra (Royal Albert Hall), Parigi, New York (Carnegie Hall), Beirut (davanti a 40,000 persone), Seoul, Auckland. Ritengo che sia stato un privilegio avergli fatto da spalla, ma proprio nel senso letterale del termine intendo, visto che lui si appoggiava fisicamente a me quando salivamo sul palco. E’ stato un bellissimo rapporto di amicizia. In questi concerti facevamo sempre il primo atto di Bohème, e ciò che rammento con maggiore intensità erano la nostra gestualità e gli sguardi d’intesa, che ne facevano ogni volta una Bohème in forma semiscenica. Altri brani che eravamo soliti eseguire erano i duetti dalla Tosca e dall’Aida. Più che dai suoi consigli ho imparato soprattutto osservandolo durante le prove e i concerti e nelle sue conferenze stampa alle quali ero sempre presente. Ricordo che a Francoforte un giornalista mi chiese chi fosse per me Luciano Pavarotti e io risposi: “Luciano is a wonderful man” e il giorno dopo avvenne che sulle prime pagine dei giornali capeggiava questa mia risposta a caratteri cubitali.
Lui era innanzitutto una persona generosa e umana. Pensi che ogni anno si ricordava del mio compleanno. Mi ha insegnato molto anche nella vita, e da lui ho imparato lo spirito di sacrificio. Un artista deve essere disciplinato, metodico nello studio, controllato nelle emozioni e nelle paure, e Luciano ha sempre avuto paura prima di ogni recita fino alla fine, perché considerava la scena come una prova, e le aspettative del pubblico erano davvero alte. Quando un giorno l’andai a trovare nella sua casa di Pesaro, stava studiando il ruolo di Calaf, e mi confessò che il suo peggior nemico era lui stesso che si ascoltava in una registrazione in mangianastri di una Turandot di circa venti anni prima. Era il 1997, se ben rammento.
Qual è il personaggio d’opera col quale si immedesima maggiormente, che sente più vicino alla sua personalità?
Non c’è un personaggio nel quale mi identifico totalmente. In ognuno, piuttosto, cerco di ritrovare me stessa perché ciò mi consente di coglierne le corde più profonde. Vestire i panni di un personaggio e spogliarsi dei propri, è spesso un salto nel vuoto, ma mi piace rischiare. Sono del parere che in teatro bisogna osare, tentare, esplorare nuove strade interpretative. Mi accorgo che nel personaggio che man mano scolpisco attraverso un sofferto percorso interiore riverbera inevitabilmente il tempo in cui viviamo, e in questo è il segreto della irripetibilità e modernità della interpretazione.
Suoi cavalli di battaglia sono i ruoli mozartiani, ma qual è il personaggio che trova più adatto al suo strumento vocale?
Questa è una cosa che non devo essere io a dirla. Ultimamente cantare Donna Elvira mi diverte tanto, ma i miei personaggi del cuore sono Mimì e Donna Anna perché in essi trovo profondità psicologiche che mi piace sondare e poi far riemergere. Norma, invece, è un personaggio unico, che definirei completo. Interpretare Norma è stato un viaggio interiore attraverso l’infinito spettro delle passioni che albergano nel petto di una donna-madre-guerriera-amante-figlia-amica. Una sorta di ritorno alle radici dell’essere dal quale sono riemersa arricchita, ed in un certo senso irreversibilmente cambiata. Non mi era mai successo prima.
Nel corso della sua carriera ha avuto modo di lavorare con registi di primo piano come Pier Luigi Pizzi e Damiano Michieletto. Come lavora con questi due maestri drammaturgicamente molto diversi tra loro?
Ad essere sincera li amo entrambi. Sono diversi, ma complementari. Pizzi è la storia del teatro italiano, del gusto teatrale: è un genio delle scene e dei costumi, è un uomo di grande intuizione e intelligenza. Adoro lavorare con lui per lo spirito di abnegazione che ha nei confronti del suo lavoro, ed in virtù di ciò mi sento in piena sintonia con lui. Ogni volta che pensiamo a un nuovo personaggio, ne discutiamo a tavolino affrontandone in primis le idee sulla sua psicologia: tutto ciò è possibile perché tra di noi c’è un sincero rapporto di stima e di affetto. Stesso discorso per Michieletto: assolutamente a pari merito! Definirei Michieletto, se messo in rapporto con Pizzi, la sorpresa del teatro italiano, il nuovo che avanza: questa è un’epoca in cui sta avvenendo un vero e proprio passaggio di consegne tra questi due geni della scena.
Recentemente ha ricevuto il Premio “Ambasciatori d’Abruzzo nel mondo” conferitole dal Consiglio Regionale d’Abruzzo. Come ha vissuto questo particolare momento della sua carriera?
Da un lato trovo la cosa preoccupante perché vuol dire che sto invecchiando, dall’altro sono felice perché ho un forte legame con la mia terra, e il fatto che sia sempre in viaggio rafforza ancora di più questo legame. Tra l’altro nell’ottobre 2010 il Sindaco della mia città, Albore Mascia, mi ha conferito anche il premio “Ciattè d’oro”, che è la massima onorificenza cittadina che viene conferita dalla municipalità di Pescara, città nella quale ho scelto di mantenere la mia residenza.
Quali sono i suoi progetti futuri?
In gennaio mi aspetta una nuova produzione di Nozze di Figaro con la regia di Pizzi al Teatro delle Muse di Ancona e sono molto lieta di portare a compimento la sua trilogia mozartiana. A Londra, invece, debutterò al Covent Garden Opera House tornando a rivestire i panni di Donna Anna dopo due anni di Donna Elvira. A marzo 2012 sono a Torino per un Così fan tutte e un recital mozartiano, mentre nel mese di maggio tornerò ad affrontare Donna Anna per un Don Giovanni alla Los Angeles Philarmonic in una produzione che vedrà la regia del celebre architetto Frank Ghery e la direzione del M° Gustavo Dudamel. In giugno, infine, tornerò a Bologna nelle Nozze di Figaro dirette da Michele Mariotti con la regia di Mario Martone. Tutto il resto è una sorpresa…
Una cantante lirica affermata e apprezzata quale è lei, come vive la drammatica situazione che il mondo dell’opera sta attraversando in questo periodo in Italia?
Questo è un periodo molto difficile che tutti stiamo vivendo molto male. L’unica cosa che penso possiamo fare noi artisti è quella di difendere l’opera italiana dando il massimo di noi stessi ogni volta. Io spero che i nostri politici non sotterrino la lirica che è un bene di tutti noi. Oltre alla pizza e all’arte, l’Italia è nel mondo associata alla lirica, e l’italiano è spesso studiato appositamente per capire l’opera.
A suo avviso la lirica è ancora in grado di trasmettere alle nuove generazioni quei messaggi forti e nobili che ha fatto nel passato?
Credo di sì. Fino a quando esiste un pubblico che va a teatro e si commuove, vuol dire che la musica ha ancora qualcosa da trasmettere. Il melodramma ha come tema principale quasi sempre l’amore, e l’amore è un qualcosa di universale che a tutt’oggi ognuno di noi ancora non è riuscito a capire fino in fondo. Con l’amore si piange e si sorride, d’amore si muore ed è per questo che la lirica non morirà.
Quale altra musica ama solitamente ascoltare oltre a quella lirico-sinfonica con la quale lavora?
Il silenzio. Amo ascoltare il silenzio.
Foto di Marco Rossi
Altre informazioni sulla biografia, il repertorio, l’agenda e la discografia di Carmela Remigio le potete trovare nel suo sito ufficiale