Martina Franca, 37° Festival della Valle d’Itria 2011
“IL NOVELLO GIASONE”
Dramma per musica di Giacinto Andrea Cicognini, con aggiunte di Giovanni Filippo Apolloni e Filippo Acciaiuoli
Musica di Francesco Cavalli, riadattata da Alessandro Stradella per il Teatro Nuovo di Roma in Tordinona l’anno 1671
Edizione critica a cura di Nicola Usula e Marco Beghelli, con la consulenza di Lorenzo Bianconi.
Prima rappresentazione mondiale in tempi moderni
Giasone BORJA QUIZA
Medea AURORA TIROTTA
Isifile ROBERTA MAMELI
Egeo MIRKO GUADAGNINI
Besso LUIGI DE DONATO
Delfa PAOLO LOPEZ
Oreste LUCA TITTOTO
Alinda, Pittura GAIA PETRONE
Ercole MASASHI MORI
Demo, Architettura KRYSTIAN ADAM
Volano PAVOL KUBAN
Sole MARIA LUISA CASALI
Musica GABRIELLA COSTA
Poesia, Amore GIUSEPPINA BRIDELLI
Satiro PAVOL KUBANOIDI
OIDI– Festival Baroque Ensemble
Direttore Antonio Greco
Regia Juliette Deschamps
Scene Benito Leonori
Costumi Vanessa Sannino
Luci Alessandro Carletti
Consulente per la drammaturgia Vincenzo De Vivo
Martina Franca, 29 luglio 2011
L’allestimento del Novello Giasone a Martina Franca nell’ambito del 37° Festival della Valle d’Itria ha saputo attuare una sinergia tra il lavoro di ricerca sotteso a un’edizione critica (qui curata da Marco Beghelli e Nicola Usula) e quello relativo alle scelte esecutive da operare su strumenti antichi (imbracciati dall’OIDI Festival Baroque Ensemble diretto al cembalo da Antonio Greco). ‘Musicologia applicata’, insomma. Questo Giasone è ‘novello’ in quanto frutto di una revisione (Roma 1671) operata da Alessandro Stradella sul best seller di Francesco Cavalli (Venezia 1649, poi ripreso decine e decine di volte per mezzo secolo). Nel Barocco (ma non solo) si sa che il melodramma vive in funzione della performance; se muta la ‘piazza’ anche il testo poetico-musicale deve riconfigurarsi. Tra le metamorfosi più vistose spiccò il cambio di registro del protagonista eponimo da contralto castrato a baritono, che richiese a Stradella non il semplice trasporto d’ottava ma una vera e propria riscrittura melodica.
Prologo, quindici arie, inserti coreutici tra gli atti, un intermezzo e due scene comiche esauriscono le corpose aggiunte stradelliane che andavano incontro ai desiderata del pubblico romano (‘pagante’ a partire proprio da quel 1671 dentro il teatro Tordinona) da sempre favorevole a una teatralità modellata sui testi di Lope de Vega. E qui si viene al dunque: la drammaturgia ‘alla spagnola’ esige un dinamismo e una verve che il binomio instauratosi tra la regia di Juliette Deschamps e le scene di Benito Leonori (qui ridotte al relitto di uno scafo con fasciame e chiglia praticabile) non ha saputo incarnare, appiattendosi su una staticità inerte che di fatto impediva all’uditorio la comprensione del dramma (per altro meno intricato rispetto allo standard di un plot seicentesco).
Uniche note positive: l’idea di ricreare gli ‘abbattimenti’ (ossia i crolli spettacolari realizzati dalle macchinerie barocche) con un velario che garantiva una certa plasticità alla scena, altrimenti vuota, e la trovata (ma troppo reiterata, per la buon anima di Russolo!) degli effetti rumoristici durante gli episodi di combattimento e di incantamento. Poca cosa. In tempi di Early Opera Revival è doveroso innanzitutto concepire un lavoro del Seicento come un’opera di teatro prim’ancora che di bella musica. Il melodramma all’epoca del Giasone non aveva ancora cinquant’anni di vita e si articolava attraverso una sapiente alternanza tra gag esilaranti, trovate istrioniche, arie lepide o languide, lamenti canori di grande intensità emozionale e meraviglie scenotecniche. Queste ultime non sono certo riproponibili in molti degli odierni spazi teatrali (specie in un piccolo cine-teatro del 1932 come il Verdi di Martina Franca), né vengono loro incontro le risorse luminotecniche, men che mai se gestite con sconsideratezza (è il caso del light designer Alessandro Carletti che mutava le gelatine quasi a voler dimostrare le leggi della casualità).
La fascinazione intrinseca all’invenzione melodica di Cavalli (e di Stradella) però si può ricreare eccome, e anche il fitto gioco di doppi sensi erotici, l’irrequietezza del movimento scenico, la gestualità adeguata a scandire la varietas espressiva dei recitativi. In questo caso il concertatore Greco ha peccato di eccessiva uniformità, allineando tutti i segmenti dialogici sullo stesso piano agogico; ne sono usciti impoveriti quegli autentici pezzi di teatro (fossili della Commedia dell’arte) rappresentati dalle battute del balbuziente Demo e dalle gustose schermaglie tessute dalla doppia coppia Giasone/Medea Isifile/Egeo. Se nel complesso è stata più che pregevole la prova del Festival Baroque Ensemble (poco coraggioso, però, nello staccare tempi rapidi che avrebbero dovuto essere estremi, in linea con lo ‘stile concitato’ di monteverdiana memoria), piuttosto pallido è risultato il cast con l’eccezione di Roberta Mameli/Isifile (emissione intonazione dizione mimica perfette) e Paolo Lopez/la serva Delfa (istrione nello spirito di Cavalli, finalmente). Troppo nervoso il Demo di Krystian Adam; pesci fuor d’acqua Aurora Tirotta (un’ottima voce per l’opera settecentesca ma non per Cavalli & C.), il baritono Borja Quiza/Giasone e Mirko Guadagnini/Egeo (peraltro ottimi in altri repertorii). La cosa grave è che dopo 210 minuti di spettacolo – durata notevole nonostante i numerosi tagli, tanto necessari quanto brutali (e che talora castravano la linearità diegetica) – chi scrive ha avuto il dubbio che i cantanti non avessero inteso quello che cantavano, né cosa accadeva sulla scena.
Beninteso, ognuno ha dato il meglio nei singoli pezzi, ma come se stesse interpretando un’opera di Handel (ossia una collana di meravigliose arie in sé conchiuse) senza nulla comprendere dell’idea di fluidità sottesa alla scrittura scenica di metà Seicento. Forse Leonori, la Deschamps e il consulente per la drammaturgia Vincenzo De Vivo si erano già proiettati verso l’impegno venturo (2 e 4 settembre) che li vedrà adoperarsi intorno alla Salustia di Pergolesi? Nel mistificare così la melodrammaturgia di Cavalli si corre un rischio enorme: allontanare per sempre dal melodramma seicentesco una buona fetta di pubblico che, fattosi di esso un’idea sbagliata, sarà disposto una sola volta ad autoinfliggersi un cilicio sonoro offerto sull’altare della Cultura musicale nella convinzione (falsa) cha essa richieda sempre all’ascoltatore un’alta dose di sofferenza.
Foto Laera. Aurelia